Come si può leggere il Cantico dei cantici dietro la sbarre di un carcere? Che sapore ha un inno all'amore in un luogo di pena, dove l'amore sembra proibito? Se lo sono chiesti, insieme al regista teatrale Claudio Montagna, 14 detenuti e 8 detenute della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Il risultato è “Metà, Meditazioni sul Cantico dei Cantici”, uno spettacolo rappresentato, nelle scorse settimane, all'interno dell'istituto di pena. Al centro del lavoro, un tema delicato, di cui si parla poco: l'affettività in carcere.
“Metà” raccoglie l'esperienza, concretissima, di vite “dimezzate”. Al di là di categorie e pregiudizi, i detenuti sono uomini e donne, sono padri e madri, mariti e mogli. Hanno affetti, amicizie e legami che per l'intero periodo di reclusione vengono vissuti “sotto vetro”, senza la possibilità di un vero contatto. La questione è spinosa, anche sul piano legislativo. «In altri Paesi europei viene affrontata con lo strumento delle visite coniugali» spiega Claudio Sarzotti, docente di Filosofia del Diritto all'Università di Torino «mentre in Italia siamo ancora in attesa di risposte da parte del legislatore. Va osservato, tra l'altro, che le privazioni affettive colpiscono anche i familiari dei reclusi, cioè persone che non hanno commesso alcun reato». Proprio per stimolare la riflessione sui temi carcerari, alcune studentesse del professor Sarzotti si sono inserite nello spettacolo. A loro è toccato il compito di interpretare la voce della legge, da un lato, e quella della “pancia”, dall'altro: “se stai lì dentro, dopo tutto, te la sei cercata... è solo quello che ti meriti”. Un punto di vista molto comune, che però, oltre a mancare di umanità, dimentica il ruolo di reinserimento sociale che la pena dovrebbe avere e che la Costituzione riconosce.
Grazie all'impegno dell'associazione Teatro e Società e di altre organizzazioni tra cui il Gruppo Abele (oltre che alla sensibilità della direzione carceraria), a Torino i percorsi espressivi di questo genere sono ormai una prassi. Ma, di anno in anno, le novità non mancano. L'edizione 2017 ha visto, per la prima volta, una partecipazione femminile. Infatti, accanto a un gruppo di detenuti del padiglione A, protagonisti del corso di teatro avviato a settembre da Franco Carapelle, hanno lavorato al progetto alcune detenute del laboratorio di canto e recitazione corale, condotto dai musicisti Nicoletta Fiorina e Giovanni Ruffino. Anche la scelta del tema è inedita. Da 25 anni il regista Claudio Montagna segue progetti di teatro dietro le sbarre, ma solo ora ha deciso di concentrarsi sull'affettività. Come mai? «E' un argomento che va affrontato con delicatezza, perché investe l'intimità di ciascuno. In alcuni spettacoli precedenti era già presente, ma sotto traccia. Forse, tutti questi anni sono stati un lungo lavoro preparatorio».
La struttura scenica sottolinea, con forza, l'impossibilità di un contatto: sul palco, uomini e donne stanno in gruppi separati e, benché a dividerli ci sia solo qualche metro, fra loro esiste una distanza siderale. Possono parlarsi solo per interposta persona, oppure facendosi segni da lontano, con un accendino nel buio. Intanto, i loro sogni prendono vita e si fanno parola. Francesco immagina, una volta uscito dal carcere, di riabbracciare sua moglie: «tu non ce l'hai ancora una moglie, non sai che cosa voglia dire passare tutta la sera con lei». Sorin sogna di andare a prendere sua figlia a scuola: «poi la porto al parco e le offro un gelato». Altri immaginano un giro un bicicletta, una corsa in moto, una pasta aglio e olio, mangiata in campagna. Alle voci dei detenuti si alternano i versi biblici del Cantico dei Cantici: parole di un amore intenso e sensuale, che in quella condizione diventano dolore, lontananza e nostalgia.
Prima dell'inizio della rappresentazione, incontriamo alcuni dei protagonisti: «Esperienze come queste sono importanti» ci dice Marina, «anche perché ci aiutano a occupare il tempo, sottraendoci, per un po', alla noia, al senso di colpa e di inutilità». Si avvicina un'altra ragazza: «Io vorrei poter fare un lavoro» scandisce, nel suo italiano un po' incerto, ma chiaro «Sì, un lavoro che mi ridia dignità». A proposito di pregiudizi, Michele ricorda l'incontro con un amico: «Eravamo in auto. Parlando dei detenuti, a un tratto lui mi disse: “che schifo. Non vorrei mai avere a che fare con uno che è stato in galera”. Lo guardai negli occhi: “finire in carcere è più facile di quanto tu creda. A me è già successo. E ora, per favore, accosta che scendo”». Olga ci parla di una sua poesia, che aveva scritto tempo fa e che è risultata perfetta per inserirsi nello spettacolo: «io non sono sola e tu non sei solo, ma c'è la luna e c'è il sole, che non si incontrano quasi mai, proprio come noi».
Per maggiori informazioni: www.teatrosocieta.it