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domenica 13 ottobre 2024
 
il critico televisivo
 

Temeraria e innovativa, ma discutibile: ecco la Tv di Silvio Berlusconi

12/06/2023  Che sia stato Silvio Berlusconi a cambiare la storia della televisione italiana è un fatto che nessuno potrebbe mettere in dubbio. Che sia stato l’artefice unico di una così radicale trasformazione (come amava spesso sottolineare in questo e in altri campi) è una lettura della storia che vale la pena di verificare (di Giorgio Simonelli)

di Giorgio Simonelli

Che sia stato Silvio Berlusconi a cambiare la storia della televisione italiana è un fatto che nessuno potrebbe mettere in dubbio. Che sia stato l’artefice unico di una così radicale trasformazione (come amava spesso sottolineare in questo e in altri campi) è una lettura della storia che vale la pena di verificare. Diciamo che attorno a lui e prima del suo ingresso nel mondo dei media si era creato un clima favorevole al cambiamento.

I fattori che avevano contribuito a crearlo erano diversi e di diversa natura.

C’era da parecchi anni una forma di avversione ideologica rispetto alla condizione monopolistica del sistema radiotelevisivo italiano. La incarnavano linee politiche differenti, forse anche opposte: da un lato l’opinione pubblica di stampo liberale, contraria a concentrare solo nelle mani dello stato la possibilità di costruire un’impresa in un settore delicato come quello della comunicazione. Dall’altro c’era la sinistra libertaria e socialista a cui si aggregavano gruppi più radicali insofferenti dei limiti, delle censure, del progetto editoriale pedagogico della Rai. Ma a partire dalla metà degli anni Settanta a queste tendenze di opinione si era aggiunta una situazione economica nuova. Era in atto in Italia una piccola rivoluzione commerciale. Non un boom della grande industria come quello del decennio precedente concentrato nel cosiddetto triangolo industriale, ma uno sviluppo diffuso a macchia di leopardo in varie zone del paese che aveva come protagonista aziende di dimensioni ridotte, operanti in vari settori e molto dinamiche. Inoltre, in quasi tutto il Paese era iniziata un’altra trasformazione, il passaggio alla grande distribuzione delle merci che andava sostituendo con i suoi prodotti di marca la tradizionale distribuzione dei beni di consumo quotidiano affidata alle botteghe. Queste nuove tendenze economiche avevano urgente necessità dello stesso sostegno, quello della pubblicità. E la Rai, con le sue rigide regole, non aveva spazio per tutti, aveva ammesso al suo Carosello, che tra l’altro stava per chiudere, una sorta di élite aziendale, mentre ora c’era una miriade di aziende che cercavano visibilità.

Da qui nasce il boom delle emittenti radiofoniche prima, televisive poi, private. In questo contesto gioca poi un ruolo determinante, sul piano politico, la rocambolesca vicenda del decreto governativo che tenta di impedire la diffusione delle trasmissioni televisive straniere (Montecarlo, Capodistria, RSI) concorrenti della Rai nella raccolta pubblicitaria, con successiva caduta del governo e intervento della Corte costituzionale con le sue sentenze liberalizzatrici. Berlusconi seppe rispondere a tutte queste esigenze e alla situazione assai confusa che si era venuta a creare, con un progetto di ampio respiro, con l’idea di una Tv che superasse la parcellizzazione dell’emittenza locale, che avesse una dimensione nazionale, anzi europea vista la scelta di investire anche all’estero, in Francia e in Spagna. Un progetto ai limiti della temerarietà, colpevolmente snobbato in molti ambienti rifugiatisi dietro al pronostico avverso del detto milanese “dura minga”. Il progetto, invece, lungi dall’esaurirsi in breve tempo si rafforzò rapidamente. Certo contarono le simpatie e i favori politici, sia nella delicata fase dei decreti craxiani che sospendevano gli interventi della magistratura che pretendeva il rispetto della legge sulla simultaneità della trasmissione, sia più tardi nell’approvazione della legge Mammì che accettava lo status quo del duopolio e che portò alle dimissioni di alcuni ministri tra i quali Sergio Mattarella.

Al di là di questo non si possono dimenticare le componenti interessanti di quel progetto, pienamente realizzate: una proposta televisiva indubbiamente innovativa, quella che i suoi sostenitori fanno coincidere tout court con la modernità della televisione italiana. Se la lettura della modernità è discutibile, un po’ eccessiva, gli elementi di innovazione non mancarono certo. Erano presenti in varie produzioni: in un intrattenimento più spigliato; nella satira politica e soprattutto di costume pungente e brillante; in spunti di informazione alternativa; in una presenza di formati di fiction inusitati, estranei alla tradizione nazionale di provenienza americana accompagnata da occasionali incursioni nella produzione domestica di fiction non banali; nell’acquisizione dei diritti delle manifestazioni sportive iniziata fin dal 1980 con il caso del mundialito e approdata molti anni dopo con la trasmissione di un emblema della vita nazionale come il Giro d’Italia; infine nella costruzione di un telegiornale che si annunciava più attento alla vita reale e meno al palazzo. Il tutto era tenuto insieme dalla pubblicità, non più confinata in uno spazio preciso come nel servizio pubblico, ma diffusa, inserita nei programmi nella forma veloce dello spot, una forma spettacolare e di felice impatto sui gusti del pubblico. Per realizzare il progetto Berlusconi scelse collaboratori dal profilo vario e originale: cinefili accaniti, autori che non si riconoscevano nei modi più formali della tv pubblica, manager e dirigenti selezionati dalle migliori università e formati nei master organizzati dall’azienda. Su questo periodo di grande vivacità berlusconiana c’è una testimonianza diretta in un bel libro intitolato Noi i ragazzi del biscione scritto da uno di quei ragazzi, Carlo Vitagliano.

Questa interessante fase non durò poco, ma col tempo lasciò il posto a quella televisione berlusconiana di segno ben diverso che da anni ci intristisce. Una Tv priva di originalità e di creatività, tutta improntata sull’utilizzo di format consolidati anziché sull’invenzione, che si affida a un seguito fedele non molto sensibile alle novità, invece di sedurre il pubblico giovanile come ai tempi di Drive in o di Emilio, che si accontenta dei cascami del Grande fratello e delle stucchevoli liturgie “mariane”. Non è semplice stabilire quando e come sia avvenuta l’inversione di tendenza. Si pensa alle inevitabili conseguenze della discesa in campo di Berlusconi, si parla di una egemonia della cultura manageriale sulla creatività autoriale, si torna a quel momento in cui fu Berlusconi stesso a decidere di fare della sua televisione una sorta di Rai, sottraendoli i talenti più popolari, invece di coltivare la diversità. Certo la sua televisione per come l’abbiamo vista nascere e imporsi e già scomparsa da tempo, assai prima del suo fondatore.                 

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