“Qui ci dorme lui, Terence, capisci?”. “Dai fammi una foto”. Al capanno, o come la chiamano quelli della troupe alla “palafitta”, sospesa sulle acque smeraldo del lago di Braies, è un pellegrinaggio, più che un’escursione. I turisti arrivano in questa valle dolomitica a centinaia al giorno, certo per vedere l’effetto ottico che fa la Croda del Becco rovesciata sull’acqua ma, da qualche anno, anche per sostare su quella che prima era solo una rimessa di barche e adesso è diventata la “cartolina” per eccellenza della popolare fiction Rai.
E lui che dice? Mario Girotti, in arte Terence Hill, sorride e si schernisce: “E’ la fiction che è bella”, abbozza l’interprete della guardia forestale che tutti vorrebbero aver come amico. La sera prima Francesco Salvi, che in “Un passo dal cielo” veste i panni di Roccia, l’inseparabile collega di Pietro, me l’aveva spiegata in una battuta la chiave del successo della serie televisiva: “Quando la telecamera inquadra Terence che sale a cavallo e che s’allontana cavalcando verso il bosco è l’apoteosi”.
Abbiamo incontrato Terence Hill sul set della fortunata fiction, a fine lavoro, ancora in divisa da guardia forestale, a Monguelfo, comune dell’Alta Pusteria a pochi minuti d’auto da Braies.
Terence Hill nei panni di don Matteo
- Cos’ha di magico questo luogo?
"E’ anzitutto la visione d’insieme che colpisce: la montagna che finisce dritta dentro il lago. E’ così potente che fa impressione. Quasi paura. E poi questo è un luogo di spiritualità straordinario. Quando dimoro qui, amo svegliarmi e fare un giro del lago per godermi questa natura incontaminata".
- Incontaminata, come la “sua” verde Umbria (il papà dell’attore è di Amelia, ndr). E’ vero che ha portato quassù un po’ della sua regione?
“Sì. Nel 2010 ho invitato al lago le “sorelle del Piccolo Testamento di San Francesco (un nuovo ordine di Gubbio che s’ispira alla Regola francescana, ndr), con cui ho stretto amicizia. Le giovani religiose si sono fatte così ben volere che la propritaria della chiesetta sul lago l’ha riaperta per loro, per la recita dei vespri e la celebrazione della messa”.
- E’ cambiata molto l’Umbria, da quando ragazzino scorrazzava in pantaloncini corti per le strade di Amelia?
“E’ rimasta una terra speciale, bellissima, e con essa i suoi abitanti. Forse il cemento ha deturpato qualche periferia, ma gli umbri hanno conservato intatto il rapporto con la gente”.
-Che cosa apprezza di più della gente umbra?
“L’ospitalità e il saper riconoscere le cose importanti della vita. Che può significare magari anche rinunciare ad arricchimenti o successi imprenditoriali, perché ‘piccolo’ è bello. Poi c’è una differenza territoriale: nel nord della Regione sono un po’ più riservati ma, una volta fatta conoscenza, ti accolgono in modo fantastico. A Gubbio, per esempio, dopo tre anni di frequentazione, per conquistarmi la “patente da matto”, che in città vale più della cittadinanza onoraria con tanto di cerimonia ufficiale, ho dovuto immergere la testa nella fontana ghiacciata del Bargello un giorno d’inverno e testimoniare la cosa con le fotografie”.
- E invece più a sud, verso Spoleto?
“Lì sono un po’ più abituati allo ‘straniero’, anche perché vi risiedono da tempo artisti, registi, uomini di cultura che vi hanno trovato la loro casa di campagna. M’inviterebbero a cena tutte le sere. Molti spoletani sono entrati nel cast come comparse, a iniziare dall’amico Spartaco, noto barista del posto”.
- Un difetto degli umbri?
“Forse il non sapersi promuovere. Le faccio un esempio: il museo archeologico di Amelia conserva da poco, ben restaurata, una statua romana di bronzo detta “Germanico”. Pochissimi lo sanno, eppure è un’opera importantissima e di incredibile bellezza, un vero gioiello dell’arte romana, che non ha nulla da invidiare ai bronzi di Riace, tanto per fare un nome. Mi piacerebbe che gli italiani sapessero quale tesoro custodisce questa cittadina umbra. E non lo dico solo perché è il paese di papà”.
- Siamo pure appassionati d’archeologia, vedo.
“Sì, mi piace la materia, ma non posso certo dire di essere uno specialista”.
- Che ama fare nelle ore libere dal set?
“In realtà, quando si gira, mi resta poco tempo. Mi devo alzare spesso prima delle cinque del mattino: preparazione, trucco, il set… Quando stacco, cerco di tenermi in forma, pratico un po’ di sport. Corro e faccio ginnastica. E poi leggo. Se posso vado a visitare qualche località vicina al set. Mi piace la natura. Mi nutro della natura”.
- E l’ultimo luogo che ha visitato?
“Da Spoleto sono salito a Monteluco, nel verde dei boschi, un piccolo borgo davvero speciale”.
-E poi che fa ancora nel tempo libero?
“Ne dedico molto al progetto delle fiction. Studio la mia parte. Mi documento. Rispetto a don Matteo, m’informo e leggo con attenzione di tutto, a partire dai discorsi del Papa”.
-Un don Matteo riveduto e corretto, su ispirazione nientedimeno che di papa Francesco?
“Diciamo che studio le parole dei suoi discorsi. Il tutto mi torna utile per interpretare al meglio la figura di questo prete che ha un’umiltà, uno spessore umano e una profondità ancora tutta da scoprire”.
- Non sarà anche una risposta a chi pensa che il personaggio di don Matteo sia troppo popolare per essere “vero”?
“Anche”.
-Questo sacerdote-investigatore non si rifà, per certi tratti, alla celebre figura di padre Brown, uscita dalla penna di Chesterton?
“E’ proprio così. Don Matteo è un po’ figlio di padre Brown, un classico intramontato. Pochi se ne sono accorti e hanno visto solo l’aspetto esteriore. Per essere intuitivo e risolvere i casi prima che ci arrivino gli altri, quest’uomo deve per forza essere un grande conoscitore dell’animo umano. Ecco il vero segreto del suo successo”.
-Don Matteo e il forestale Pietro hanno qualcosa in comune?
“Non saprei. In un certo senso però il cavallo sta a Pietro come la bici sta a don Matteo”.
- In che senso?
“Che in entrambi i casi si tratta di una scelta ecologica coerente”.
- Voluta dagli autori?
" La bici sì. Io per il sacerdote avevo proposto la moto, ma il regista giustamente mi fece notare che il protagonista sarebbe stato perfetto sui pedali. Il cavallo invece l’ho suggerito io. Avevano pensato a un banale fuoristrada, ma una guardia forestale è perfetta a cavallo”.
Se poi in sella sale chi negli anni Settanta è diventato uno dei cow-boy del grande schermo più amati dal pubblico, il gioco è fatto.
- Signor Hill, ma un altro spaghetti-western con Bud Spencer lo farebbe, quarant’anni dopo quei successi?
“Me l'ha chiesto anche lui, di recente”.
- E lei?
“Gli ho risposto che lo farei solo se fossi sicuro di fare un film ancor più divertente di quelli”.
Impresa difficile, ma non impossibile.