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mercoledì 19 febbraio 2025
 
25 aprile
 

Teresa Vergalli, l'ultima staffetta partigiana: «L'Ucraina ci ricorda che la libertà non è scontata»

25/04/2023  «Mai dare per assodati i valori della nostra democrazia. Nascondevo i messaggi tra le ciocche dei capelli. Non ho mai avuto paura: mi confortava la speranza di un domani migliore»

Teresa Vergalli a 17 anni, quando era staffetta partigiana.
Teresa Vergalli a 17 anni, quando era staffetta partigiana.

«La mia storia, ormai, dovrebbe essere nient’altro che un ricordo di famiglia. Un racconto che i miei nipoti tramanderanno ai loro figli e poi ai nipotini, e avanti così finché la mia strada - che poi è la strada del Paese – non si sarà trasformata in una sorta di leggenda». Con il nome di battaglia Anuska e neanche diciassette candeline spente, Teresa Vergalli percorreva in lungo e in largo le campagne della Val d’Enza, tra la provincia di Reggio Emilia e quella di Parma, portando messaggi e documenti ai partigiani e guidando dirigenti e responsabili militari. Quando la guerra si è fatta più dura, tra il ‘44 e il ’45, si è ritirata in montagna per poi tornare ad organizzare i gruppi di difesa delle donne per la Resistenza e per l’emancipazione. Finita la guerra ha terminato gli studi magistrali e proseguito l’attività politica, fino alla scelta di diventare maestra elementare con la missione di formare futuri cittadini consapevoli, con una coscienza sociale e ispirati ai principi della solidarietà. Mentre la storia si sta ripetendo, la vicenda di Teresa, che oggi ha 95 anni, ripercorsa in un libro (Una vita partigiana, edito da Mondadori) ci ricorda che la democrazia è stata conquistato con l’estremo sacrificio e la lotta di tante persone, che non è imperitura e deve continuare ad essere difesa.

Che cosa evoca in lei il 25 aprile?

«Un sentimento di sollievo. Io e i miei compagni avevamo tanti ideali, tanta speranza e fiducia nel futuro ma avevamo passato momenti terribili e il dolore della guerra, della distruzione e della morte erano ricordi ancora troppo recenti per poter gioire. Il percorso che ci avrebbe condotti alla democrazia era sconosciuto e, dopo tanti anni di dittatura e mancanza di libertà, non riuscivamo neanche a immaginarlo. Oggi la parola Resistenza è associata al popolo ucraino. Credevo che la guerra fosse stata sconfitta, cancellata per sempre, invece nel mondo ci sono tanti focolai che sembrano piccoli se visti da lontano, ma nessuna guerra è piccola per chi la vive. L’Ucraina che combatte per la sua libertà ci ricorda che nulla è conquistato per sempre».

Cosa l’ha spinta a raccontare la sua vicenda?

«Purtroppo i tempi che stiamo vivendo rendono necessario raccontare un’altra volta la mia storia, ricordare a chi negli anni Trenta e Quaranta non c’era quanto difficili siano stati e quanti passi in avanti abbiamo fatto rispetto ad allora. L’Ucraina che combatte per la sua libertà ci ricorda che nulla è conquistato per sempre e non bisogna dare per scontate le conquiste fatte. La democrazia è qualcosa di fragile e prezioso, e come tale va protetta. Garantire i diritti di tutti, donne e uomini, anziani e giovani, è la chiave per un avvenire di pace».

Nel libro cita spesso la sua famiglia. Che ricordo ha dei suoi genitori?

«Erano contadini, persone semplici e con pochissimi mezzi. All’epoca c’erano i mezzadri che non possedevano nulla e gli affittuari che avevano un podere in affitto e potevano decidere e vendere i prodotti della terra a loro piacimento. Mia madre veniva da una famiglia di mezzadri e mio padre era figlio di affittuari. Nonostante l’epoca difficile in cui sono nati hanno cercato in tutti i modi di non far mancare nulla a me e mio fratello, anche se questo ha significato lasciare la casa e andare a vivere altrove».

Come spiegherebbe a un bambino cos’è una staffetta partigiana?

«Utilizzando un’immagine presa in prestito dallo sport: due maratoneti che si passano il testimone. Esattamente allo stesso modo, noi staffette partigiane portavamo di corsa le notizie da una persona all’altra, spesso percorrendo, a piedi o in bicicletta, lunghe distanze. Capitava che dovessimo aiutare le persone ad attraversare i nostri territori, spesso si trattava di personalità chiave della Resistenza che dovevano spostarsi o incontrare qualcuno. Noi li aiutavamo a evitare i pericoli oppure garantivamo per loro che non si trattava di infiltrati o spie».

È evidente che correva molti rischi. Non aveva paura?

«Paura no. Ero consapevole che se volevo aiutare i partigiani la paura dovevo metterla da parte. Mi davano coraggio la speranza di un domani migliore e l’idea di far qualcosa per le persone che con la guerra non c’entravano niente. Le vittime civili sono quelle che, da sempre, mi fanno commuovere di più. È sempre stato così anche nella guerra che abbiamo combattuto cento anni fa. Più che i militari sotto le bombe morivano i civili, anche per gli stenti e per la fame. Ero preoccupata soltanto quando portavo addosso qualcosa di compromettente, come un messaggio scritto, e quando mi imbattevo in un posto di blocco. I messaggi li consegnavo sempre a voce ma una volta è capitato che dovessi consegnare una circolare importante. Era di Togliatti e riguardava la svolta di Salerno (la proposta di formazione di un governo di unità nazionale sotto la guida di Badoglio, n.d.r.). L’avevo infilata nella fodera di un libro. I soldati mi fermarono e con un tono molto cattivo mi chiesero dov’ero diretta. Io risposi: “A studiare da un’amica”. Inaspettatamente mi lasciarono passare. L’istinto fu quello di correre via ma cercai di non dare nell’occhio. Un po’ più avanti, però, sentii l’esigenza di fermarmi per respirare. Mi sentivo soffocare ma non tanto per la paura, quanto per la rabbia di essere stata imprudente».

In un’intervista ha dichiarato che nascondeva i messaggi nelle trecce dei capelli.

«Sì, è vero. Ci nascondevo i bigliettini in cui c’era scritta la dichiarazione che io ero del movimento e dovevano ascoltare quello che dicevo loro di fare».

Cosa pensa del momento che l’Italia e l’Europa sta attraversando?

«In questo momento, per fortuna, noi non siamo in guerra, ma vedo traballare e ogni giorno messe a rischio le nostre conquiste. Dove c’è la ricchezza della diversità il fascismo pianta i semi della paura, e dalla paura non può che nascere violenza, discriminazione e ingiustizia. Dove c’è uguaglianza il fascismo separa e indica un nemico. Che futuro può avere una comunità che si regge sulla divisione?».

 

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