Prime eco dalla Croisette. Dopo il mezzo passo falso del film francese di apertura, il livello qualitativo del festival è subito salito con i titoli in corsa per la Palma d’oro. Anche le polemiche però sono montate creando non poco scompiglio. La prima terra terra, organizzativa, ma non per questo meno importante nel frenetico susseguirsi ogni giorno di film ed eventi. Tutti accettano di buon grado i controlli anti terrorismo, ma sono stati talmente intensificati che ormai per assistere a una proiezione non basta mettersi in fila un’ora prima. E a Cannes vedere due o tre film al giorno è la norma. Il piazzale antistante il Palais è un immenso aeroporto con giornalisti e spettatori incanalati verso gazebo armati di metal detector che non fanno che trillare. E così giù borse, mazzi di chiavi, telefonini, manciate di monete. Molti devono ripassare il controllo. La folla si accalca fuori mentre dentro le sale sono deserte. L’altro giorno, allo screening mattutino per la stampa di Wonderstruck di Todd Haines, è successo il patatrac: al canonico orario delle 8 e mezza, il Grand Théatre Lumière era mezzo vuoto. La proiezione è cominciata con un quarto d’ora di ritardo (cosa mai successa a memoria d’uomo) perché i giornalisti, dopo gli estenuanti controlli, correvano trafelati in platea. Se va avanti così, la rivolta è nell’aria.
Okja è un mezzo flop
L’altra polemica è più alta, riguarda i criteri della corsa alla Palma d’oro. Ma in buona sostanza anche il futuro della settima arte perché vede contrapposti i cinefili duri e puri a Netflix, la piattaforma digitale a pagamento che produce anche e che quest’anno, per la prima volta, ha ben due titoli in gara. Thierry Frémaux (direttore generale del festival) chiede che i due film escano nei cinema, almeno in Francia. Ma quelli di Netflix fanno orecchie da mercante. Sulla querelle ha detto la sua il presidente della giuria: “Sarebbe un paradosso che una Palma d’oro o qualsiasi altro premio andasse a un film non destinato alla sala”, ha sentenziato Pedro Almodòvar, Oscar per Tutto su mia madre più innumerevoli altri trofei. “Le piattaforme digitali in sé sono principio giusto e positivo ma questo non dovrebbe sostituire la forma esistente come la sala cinematografica, né alterare le abitudini degli spettatori. Credo che almeno la prima volta un film vada visto su uno schermo che non sia più piccolo della sedia su cui stiamo seduti”. Ergo,
Okja del coreano Bong Joon-Ho e The Meyerowitz stories dell’americano Noah Baumbach non entreranno nel Palmarès. Tempesta in un bicchier d’acqua, però, perché dietro gli alti princìpi resta la qualità di un film. E lo strombazzato Okja ha deluso. Forse troppa l’attesa. Solita proiezione antelucana. Sui titoli di testa, fischi dei duri e puri a Netflix. Applausi dei contestatori. I rumors non cessano. Il film s’interrompe. C’è chi paventa l’intervento della sicurezza per sbattere fuori i disturbatori. Poi si scopre che i più attenti si lamentavano perché la proiezione era cominciata col mascherino sbagliato. Altro ritardo, si ricomincia daccapo. Ed ecco sullo schermo una storiella animalista, che comincia in mezzo al verde delle montagne sudcoreane per concludersi tra i grattacieli di New York. Qualcuno azzarda un paragone con King Kong. A noi è parsa una cosa di mezzo tra Jurassic Park e L’esercito delle 12 scimmie, senza però la spettacolarità del primo né la visionarietà dell’altro. Buono l’incipit: multinazionale dedita agli Ogm (capitanata dall’algida Tilda Swinton) lancia un reality per il miglior super maiale: dice, mentendo, di aver scovato una razza autoctona in Cile e spedisce vari esemplari in giro per il mondo affinché siano allevati in modo naturale. Tra dieci anni si scoprirà il vincitore, complice un veterinario ubriacone star della Tv (Jake Gyllenhaal). E niente più fame.
Il prescelto è Okja, cresciuto tra le montagne sudcoreane dalla ragazzina Mija e da suo nonno. L’animale è un giocherellone più grosso di un ippopotamo, dello stesso colore ma col muso da bravo cagnolone (ottimi gli effetti speciali). Ovvio che quando Mija scopre che l’amica del cuore verrà ridotta in salsicce farà di tutto per salvarla, aiutata da una banda di animalisti guidati dal fanatico Jay (bravo Paul Dano). È in questo passaggio però che il film scade da poetica commedia in farsa. Il regista ci infila di tutto. Insomma, la Tv che fa film prende il giro la Tv che fa i reality. Peccato che si tratti sempre della stessa. È il segreto di pulcinella: prenditi in giro da solo prima che lo facciano altri. Lo sviluppo è scontato e le scene finali del mattatoio, che dovrebbero far ribollire l’animalista che è in ognuno di noi, annoiano. Con risibile riferimento allo Spartacus di Stanley Kubrick. Una coppia di super maiali in fila per il mattatoio (come i gladiatori ribelli messi in croce dai romani lungo la via Appia) spinge infatti fuori dalla recinzione un cucciolo, che Okja e la bimba portano in salvo di nascosto. Un mezzo flop da cui si salvano i bravi attori, con menzione speciale per la coreana An Seo Hyun che interpreta Mija. Ma di questo festival salvato dai ragazzini avremo modo di parlare.