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martedì 10 settembre 2024
 
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“Terrorismo religioso”? Una bestemmia

24/04/2019  «Le parole possono essere pietre: siamo chiamati a vigilare sul nostro e sull’altrui modo di esprimersi, in modo da non associare l’aggettivo “religioso” al “terrorismo” e da non chiamare “martire” il “kamikaze”» La riflessione di Pino Lorizio, teologo

In queste giornate di dolore e di angoscia per gli eventi accaduti la mattina di Pasqua nello Sri Lanka, leggiamo sulla stampa e ascoltiamo nei media l’orribile espressione “terrorismo religioso”, dalla quale dobbiamo dissociarci con tutte le nostre forze, evitandola nel nostro discorrere e stigmatizzandola quando la ascoltiamo sulla bocca di altri. La violenza non può appartenere all’autentica dimensione religiosa dell’uomo, che proprio perché riconosce ed esprime la fede in un Assoluto da cui l’esistenza ha avuto origine e nel grembo del quale farà ritorno, non può in alcun modo adottare comportamenti di negazione della vita propria e altrui, né di vilipendio di essa. Se poi si tratta della fede nel Dio unico, essa non può non farci considerare gli altri come sue creature e quindi non può non farci considerare tutti gli esseri umani come fratelli. La compartecipazione di rappresentanti delle diverse fedi alla preghiera e alla solidarietà in momenti tragici come l’incendio di Notre Dame e soprattutto la strage dello Sri Lanka dovrebbe interpellare tutti e suggerire pensieri e parole di dialogo e di fratellanza piuttosto che di conflitto e di odio.

In questa prospettiva il kamikaze non ha nulla in comune col martire cristiano, in quanto mentre il primo persegue la violenza su se stesso, procurando dolore e morte agli altri, il secondo accetta, anche una morte violenta, ma senza mai cercarla e soprattutto senza procurare sofferenza agli altri, ma prendendola su di sé, a imitazione di Cristo, che ha accettato la volontà del Padre, non prima di avergli chiesto di allontanare il calice amaro della passione e morte in croce.

L’attenzione al linguaggio è fondamentale (le parole possono essere pietre), sicché siamo chiamati a vigilare sul nostro e sull’altrui modo di esprimersi, in modo da non associare l’aggettivo “religioso” al “terrorismo” e da non chiamare “martire” il “kamikaze”. Una responsabilità che chi lavora nell’ambito mediatico a maggior ragione dovrebbe tener presente, onde evitare di divulgare equivoci, che potrebbero risultare letali.

Foto in alto: una donna prega in un cimitero a Negombo, Sri Lanka, mentre si celebrano i funerali della vittima degli attentati di Pasqua (Reuters)

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Lo strazio dei familiari delle vittime durante i funerali
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