Il cardinale Dionigi Tettamanzi lascia Milano
e tenta un bilancio dei suoi nove anni
alla guida della cattedra di san Carlo Borromeo ,
ora che al suo posto arriva (il 25 settembre)
il patriarca di Venezia, il cardinale
Angelo Scola. Racconta la città e le sue sfide,
in questi anni che lo hanno visto protagonista
dentro e fuori la Chiesa cattolica. Ecco un video che ripercorre la storia del suo episcopato alla guida della Diocesi di Milano .
VIDEO
L'INTERVISTA
«Meno parole e più Vangelo»
Eminenza, com’è cambiata Milano?
«Inizierei da ciò che non è cambiato. A Milano
ho trovato una Chiesa forte, una tradizione
viva, ricca di fede e di umanità. Ho trovato
in città una marcata propensione al dialogo,
un’apertura mentale, culturale e spirituale
che alcuni venti avversi, spirati violentemente
in questi anni, non sono riusciti a
sradicare. Tanti i cambiamenti, invece, ma
da leggere in modo accorto: il progressivo impoverimento
economico delle famiglie, ma
al tempo stesso l’aumento della pratica della
solidarietà; la crescente disaffezione verso la
politica e l’aumentata voglia di “dire la propria”
sulla città; il peggioramento di alcune
prospettive di stabilità per il lavoro dei giovani
ma, insieme, le accresciute opportunità
formative e culturali; l’aumento del numero
degli immigrati e la crescente incapacità a farli
sentire protagonisti della società; l’aumento
della ricchezza per pochi, l’indebitamento
crescente per molti. Dimenticavo un’altra cosa
che non è cambiata: gli anni della cosiddetta
Tangentopoli pare che qui non abbiano
insegnato nulla, visto che purtroppo la
questione morale è sempre d’attualità».
E il Paese come è cambiato visto dall’osservatorio
di Milano?
«Tante le urgenze sociali che attendono cura
e dedizione. E già questo temo sia un segnale
di scadimento della qualità della vita
della nostra nazione, che però nulla ha perso
del suo orgoglio, della sua speranza, delle
sue potenzialità. Chi ha responsabilità sociali
pubbliche deve lavorare per il benessere comunitario.
Non si può pensare di poter tutelare
“qualcuno” dimenticando “altri”, nemmeno
– e mi spingo quasi al paradosso – difendere
i diritti dei più “deboli” a danno dei
più “forti”. I deboli vanno tutelati certo, ma
non con continui e straordinari atti di assistenzialismo.
Devono essere tutelati dallo
svolgersi ordinario della vita sociale perché
ritenuti parte preziosa, importante, necessaria
alla vita del Paese».
Chi sono i deboli oggi?
«Gli immigrati, gli anziani, chi fatica ad
avere le risorse economiche. Ma i più deboli
oggi sono purtroppo i giovani, preoccupati
per la mancanza di prospettive serie di lavoro,
di famiglia, di stabilità, di spazi di giusto
protagonismo, di modelli di vita, di opportunità
dove misurarsi e mettersi alla prova: insomma,
poveri di futuro. In questo, il Paese
purtroppo è peggiorato. Chi governa dovrebbe
avere il coraggio e la determinazione di
impostare le manovre economiche assicurando
una vera speranza ai giovani, all’infanzia,
alla scuola. Se vogliamo che il futuro del Paese
sia migliore, è qui che occorre indirizzare
le energie».
A Milano abitano 400 mila musulmani,
ma la città si oppone alla costruzione di una moschea. È stato difficile per lei in questi anni
predicare una civiltà multietnica?
«La nostra società fa ancora fatica a confrontarsi
veramente con l’immigrazione,
che, se per alcuni può essere un problema,
per tutti dovrebbe essere, invece, un’opportunità.
È all’immigrazione che Milano deve
non poco della sua fortuna: questa città è
frutto di ripetuti e successivi processi di integrazione.
È una memoria da recuperare. Sicuramente
occorre intervenire per regolare doverosamente
il fenomeno migratorio, garantendo
la legalità, attivandosi di concerto con
le altre nazioni. Ed è indubitabile che anche
la Chiesa debba fare la propria parte. Purtroppo,
invece, spesso accade che a prevalere
sia la paura dell’altro».
Come già accennava, si ripropone una
“questione morale” ancora una volta a Milano
(caso Penati): lei, il vescovo di Milano,
quali riflessioni ha fatto sulla politica e
l’economia e gli intrecci poco virtuosi, che
portano alla corruzione, spesso reciproca,
denunciata anche recentemente da papa Benedetto
XVI?
«Ogni giorno, leggendo i giornali, si è portati
a pensare che si stia sprofondando sempre
più in basso. L’immoralità è dilagante, a
tutti i livelli della società, e pare che al peggio
non ci sia più limite, che la catastrofe sia
alle porte. Dovremmo però purificare lo
sguardo, magari aiutati da mezzi di comunicazione
più coraggiosi. Molti sono corrotti,
ma non mancano gli amministratori onesti.
Penso ai tanti sindaci, amministratori locali,
consiglieri provinciali o regionali, parlamentari
che incontro e che mi testimoniano la loro
passione per il bene comune, quasi consumati
dalla voglia sincera di servire e migliorare
il proprio Comune, il territorio, il Paese.
Non dimentichiamoci di loro, così come di
chi continua con dedizione a far “funzionare”
il Paese, a garantire i servizi supplendo alle
negligenze di chi ha maggiori responsabilità.
Prima di accusare l’immoralità degli altri,
ciascuno verifichi sé stesso, i piccoli gesti quotidiani,
sia fedele nelle proprie piccole e grandi
responsabilità».
La crisi e le famiglie: lei ha costituito il
Fondo di solidarietà, poi molti, anche la Cei,
hanno copiato l’idea. Cosa è stato fatto?
«È stato fatto moltissimo grazie alla generosità
di tante persone, dei privati, dei gruppi.
Ma ancora molto rimane da fare. Il Fondo Famiglia
Lavoro è stato un gesto straordinario
nei risultati ottenuti, nel tipo di proposta.
Tanta solidarietà si è attivata,
spesso anche da dove non ci si aspettava.
Quella che non vedo ancora
compiuta è la conversione degli “stili
di vita”, che devono essere fortemente
segnati dalla sobrietà e
dall’essenzialità».
Milano è la città da dove sono venute
persone che hanno cambiato
l’Italia. Forse insistendo troppo sui personalismi:
da Craxi a Berlusconi, a Bossi. Milano
è anche diventata la città di Tettamanzi,
il vescovo che si è “opposto”, un vescovo
sgradito e per alcuni un vescovo con un ruolo
“innaturale”. Lei che idea si è fatto del
ruolo di un vescovo a Milano?
«Milano è una città dove l’impronta cristiana
è forte. Guidare la Chiesa ambrosiana, in
un territorio complesso come quello di Milano,
è un peso e una grande responsabilità,
ma è anche un’esperienza di singolare arricchimento.
Come vescovo a Milano
ho cercato di servire il Vangelo
e di fare della Parola del Signore
la bussola e la guida del mio
episcopato. Ci sono stati momenti
di difficoltà, fatiche anche. Ma il
vescovo deve avere il coraggio e la
libertà di dire quel che pensa sia
giusto, quel che dice il Vangelo,
senza temere le critiche».
Da Ancona alla segreteria della Cei, e poi a
Genova e a Milano, lei ha avuto molte responsabilità.
Qual è lo “stato di salute” della
comunità ecclesiale italiana?
«La Chiesa è in salute sempre, perché lo
Spirito di Cristo la sostiene, ma al tempo stesso
sperimenta non poche fatiche nella storia,
anche per mancanze proprie. La Chiesa è
“santa”, immacolata, essendo la Sposa del Signore,
pur sperimentando le macchie del
peccato dei suoi membri. Oggi più che mai
abbiamo bisogno di una Chiesa radicata in
Cristo, che metta lui e non l’organizzazione o
il successo mondano al centro».
Sembra che il semplice annuncio del Vangelo
sia tuttora dirompente, in una società
come la nostra. A suo parere, da che cosa è
motivato questo eterno “scandalo” rappresentato
dal cristianesimo?
«Sulla Parola di Dio, che è una promessa,
si fonda l’amore. La nostra società vive di parole,
troppe e spesso inutili parole. Ecco, forse
da qui, dall’osservazione della realtà, bisogna
partire per rispondere alla vostra domanda:
travolti dalle parole – vuote, inefficaci,
convenzionali, inaffidabili – la donna e l’uomo
di oggi sperimentano l’insopprimibile bisogno
di una parola affidabile, carica di senso,
che compia quanto promette, che dischiuda
l’orizzonte e mostri il futuro. E la Parola
di Dio, se adeguatamente annunciata e udita,
ha questa forza sempre nuova, dirompente,
che a volte scandalizza, ed è capace di attrarre
e affascinare l’uomo contemporaneo».