Il dialogo iniziale tra Jordan Belfort e Mark Hanna in The Wolf of Wall Street
La scena più potente ed evocativa di The wolf of Wall Street, la chiacchieratissima pellicola del maestro Scorsese (candidata a cinque Oscar) col suo attore feticcio Leonardo DiCaprio, si svolge all’inizio del film. Il protagonista, giovane rampante che aspira agli agii degli operatori di borsa, siede al tavolo dell’elegante ristorante in cui fa pausa pranzo Mark Hanna (un folgorante Matthew McConaughey), lui sì broker professionista e uomo di successo anni ‘90.
Il dialogo, surreale, si svolge in mezzo al rispettoso bisbiglìo dei commensali attorno, mentre un solerte cameriere porta all’influente avventore un vodka-martini dopo l’altro. “Come pensi che funzioni Wall Street?”, sbotta l’esperto Mark. “Senti questo fruscìo nell’aria? Sono i dollari. Il tuo compito non è far guadagnare il cliente bensì far girare il denaro! Mettiamo che tu gli abbia fatto accumulare un bel capitale con delle blue-chips, azioni sicure di qualche grossa società quotata: a quel punto lui ti chiederà di vendere per incassare. È lì che intervieni tu: gli dici che è vero, ha realizzato un bel guadagno, ma che potrebbe fare molto di più reinvestendo tutto su un altro titolo in ascesa. Stai tranquillo, accetterà perché la borsa è come una droga. Così lui sarà ricco ma solo in teoria, sulla carta: quei dollari non li dovrà vedere mai. Tu, invece, ogni fine mese metti all’incasso le tue provvigioni”.Semplice e illuminante.
L’Oscar lo meriterebbero lo sceneggiatore Terence Winter e la tagliente interpretazione di Matthew McConaughey. Il film di Scorsese vanta invece cinque nomination in altre categorie, compresa quella del miglior film, che tutto sommato non merita. Perché, anche se il copione è tratto dalla biografia del vero Jordan Belfort, re delle azioni spazzatura che nei primi anni ’90 scalò Wall Street e le copertine delle riviste a colpi di milioni di dollari, il racconto di Scorsese è talmente sopra le righe da apparire surreale.
La bella faccia di DiCaprio fa da guida allo spettatore in un ambiguo viaggio nella Sodoma del sogno americano: soldi facili a palate, champagne, aragoste, raggiri, sesso gratis e a pagamento, droga a go-go.
Fino alla rovinosa caduta di Belfort, dieci anni dopo, in seguito a un’indagine dell’FBI motivata più dai suoi eccessi esistenziali che dalla cognizione delle truffe azionarie.
Il guaio è che l’insistenza patinata della cinepresa di Scorsese su orge aziendali e amplessi è ridondante, sfiora il voyeurismo. Il risultato è di anestetizzare lo spettatore, che si crede immerso in una Disneyland per depravati e non di fronte alla vera storia di uno dei più grandi criminali dell’alta finanza. D’altronde, cosa si sarebbe potuto dire di più sulle ruberie dei broker dopo i due bei film (Wall Street del 1987 e Wall Street: il denaro non dorme mai del 2010, entrambi con Michael Douglas nel ruolo di Gordon Gekko) realizzati dal caustico Oliver Stone?
Quella sequenza iniziale tra McConaughey e DiCaprio è la pietra tombale di Hollywood su Wall Street. La parola definitiva su una diaspora cominciata attorno al primo storico crollo della Borsa, nel 1929: raccontato magari di sguincio, buttandola in farsa (A qualcuno piace caldo di Billy Wilder con Tony Curtis e Jack Lemmon) oppure con toni drammatici (Cinderella Man di Ron Howard con Russell Crowe). Fino ad arrivare all’impietosa fotografia scattata da Michael Moore nel 2009 con il suo docu-film Capitalism: a love story.
Una scena del film Il capitale umano di Paolo Virzì
Ma la crisi morale, prima ancora che sociale e legale, dell’alta finanza e del mondo della Borsa è un fenomeno talmente generalizzato da aver toccato anche il cinema italiano. Dalle denunce quasi poetiche dell’avidità di denaro negli anni ’60 (per tutte la scena con la giovane Catherine Spaak nuda e ricoperta di banconote in La noia di Damiano Damiani da Moravia) fino all’epoca contemporanea (buon ultimo La nostra vita di Luchetti con Elio Germano premiato a Cannes) si passa ora così a storie più mirate.
Con Il gioiellino Andrea Molaioli ha avuto l’ardire, nel 2011, di prendere per la prima volta di petto il clamoroso e drammatico crac di borsa made in Italy: anche se nel film l’azienda si chiama Leda, è chiaro che si tratta delle malefatte della famiglia Tanzi e del crollo della Parmalat. Film intenso, splendidamente interpretato da Toni Servillo e Remo Girone, che ha avuto però una tiepida accoglienza. Forse perché un po’ in anticipo rispetto alla sensibilità dell’opinione pubblica.
I tempi, invece, si stanno dimostrando maturi per Il capitale umano di Paolo Virzì che, dopo aver sollevato furiose polemiche, veleggia oltre i 4 milioni di euro d’incasso. Tessitura degna di un thriller per uno dei più duri e circostanziati atti d’accusa contro l’Italia degenere di oggi. Chi sarà il pirata della strada che è fuggito nella notte lasciando un ciclista moribondo? E perché paiono tutte ansiose e angosciate le persone in qualche modo coinvolte? Eppure, hanno belle case e vite agiate. Certo non si preoccupano della sorte del poveretto investito. Il fatto è che tutti, ricchi e parvenu, sono afflitti: o dalla fame di denaro o dall’ansia di perderlo.
Alla fin fine, ci farà più bella figura lo squalo della finanza (il signorotto brianzolo elegantemente incarnato da Fabrizio Gifuni) di tutti i parassiti che gli ronzano attorno con la speranza di carpire briciole di un’olezzante fortuna (a partire dall’immobiliarista impersonato da Fabrizio Bentivoglio).
Anche ne Il capitale umano c’è una scena chiave, verso la fine. Il ricco e la riluttante consorte (Valeria Bruni Tedeschi) si stanno vestendo per la festa in villa che celebra il successo del raider: rischiava di perder tutto, invece ha rilanciato in Borsa facendo una fortuna. “Avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto”, sibila lei. “Abbiamo vinto, cara. Abbiamo…”, sussurra lui. “Perché ci sei anche tu”. Chiusura amara, perfetta. Questa è l’Italia, bellezza.