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sabato 12 ottobre 2024
 
giustizia
 

Magistrati in politica, tra legge e opportunità

01/04/2017  Al di là della legge che limiti il passaggio dalla toga alla candidatura e viceversa, c'è una responsabilità verso chi resta a indagare e giudicare.

Il tema è spinoso, ampiamente strumentalizzato e strumentalizzabile. La Camera ha approvato (sempreché il Senato ne confermi il dettato) una legge che limita le cosiddette porte girevoli tra magistratura e politica attiva, che regolamenta cioè l’accesso dei magistrati alle candidature politico-amministrative e il ritorno, eventualmente, al lavoro di prima. Come accade sempre in questi casi, la soluzione è giudicata troppo morbida da alcuni, troppo rigida da altri.

Ma il tema c’è, anche se è giusto riconoscere che la politica ne ha fatto spesso un uso strumentale: nel senso che da una parte accusa i magistrati di pregiudizio politico, dall’altra corre a candidarli trasversalmente all’arco parlamentare: ci sono stati e ci sono – oggettivamente non grandi numeri, meno dell’impressione che dà il clamore del tema - magistrati candidati ed eletti tra centro, centro-destra e centro-sinisistra.

Già oggi è vietata ai magistrati l’iscrizione ai partiti politici ed è evidente che una legge può solo regolamentare ingresso e uscita: sarebbe quantomeno discutibile, come ha ripetuto spesso Piercamillo Davigo, fino al 31 marzo 2017 presidente dell’Associazione nazionale magistrati, negare ai magistrati i diritti politici che in tutto il mondo si levano ai condannati. Ciò non toglie, però, che lo stesso Davigo sia, dal proprio punto di vista, il primo a ribadire che da parte di un magistrato sarebbe meglio tenersi alla larga dalle sirene della politica.

Ecco, il punto forse è qui: ci sta che si faccia una legge per normare il passaggio magistratura-politica anche a tutela dell’indipendenza della magistratura, ma c’è una questione di opportunità, di immagine del magistrato – singolo e come ordine – che la coscienza più che la legge può e dovrebbe regolamentare: chi sceglie un lavoro particolare, che prevede in Costituzione le guarentigie di autonomia e indipendenza per tutelare la magistratura dalle pressioni e la cittadinanza dalle conseguenze di quelle pressioni, dovrebbe pensarci due, tre, quattro volte prima di dismettere la maglia dell’arbitro per indossare la casacca di una squadra. Per non rischiare di gettare ombre sulla precedente imparzialità dell’arbitro che è stato e, a maggior ragione, sulla successiva, qualora dovesse tornare ad arbitrare.

Sarebbe utile, per esempio, imporsi (forse anche imporre?) – come molti ma non tutti hanno fatto – di chiudersi per sempre la porta dei tribunali alle spalle prima di candidarsi: c’è, infatti, una responsabilità non penale, non civile, ma morale, di immagine, che il singolo che si candidi porta anche nei confronti dei magistrati che restano a fare i magistrati. Perché ci sarà sempre, ogni volta che un magistrato passa alla politica, qualcuno che lo prenderà a pretesto per dire: ecco, avete visto sono rossi, azzurri, gialli, grigi, come dicevamo noi.

In un tempo, in cui l’accusa di partigianeria alla magistratura è stata rivolta troppe volte, gratuitamente e sguaiatamente, forse aiuterebbe che anche pochi magistrati non le dessero pretesti con passaggi di percorso che possano anche soltanto apparire disinvolti.

Dopodiché, non è il caso di illudersi: quand’anche i magistrati decidessero ciascuno in coscienza di stare a distanza dall’impegno politico, ci sarà sempre qualcuno che pretestuosamente li insulterà tacciandoli di partigianeria, «perché sempre», scriveva Piero Calamandrei, nell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato, negli anni Trenta, «tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria». Un’offesa volgare che, guarda caso, non ha risparmiato chi ha fatto, senza sconti, sempre e solo il magistrato.

Ps. Detto questo, si deve dire anche che il conflitto di interesse in politica esiste anche per altre categorie e che nulla si è fatto per porvi rimedio, neanche nei casi clamorosi in cui s’è visto un Parlamento scrivere leggi cucite addosso alle esigenze contingenti di un capo del Governo imputato e dei suoi avvocati difensori contemporaneamente parlamentari.

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