Pochi registi hanno saputo cogliere lo spirito della Storia d’Italia come Marco Bellocchio. A partire da I pugni in tasca, realizzato nel 1965, ma precursore di quello che sarebbe stato il Sessantotto. La rottura con gli antichi retaggi, i figli che si ribellano contro padri. Allo stesso modo Il traditore si apre con una frattura. Una splendida festa, una villa da mille e una notte. Sembra di tornare al Gattopardo. Verrà scattata una foto, l’immagine di Cosa Nostra prima della guerra, di Totò Riina, dei bagni di sangue.
Al centro de Il traditore c’è Tommaso Buscetta, conosciuto come “don Masino” o anche “il boss dei due mondi”. Più avanti sarebbe diventato il testimone chiave dei maxiprocessi di mafia, il collaboratore di giustizia che avrebbe accusato addirittura Andreotti. Sul corpo di Buscetta, Bellocchio costruisce l’affresco di una nazione, come aveva fatto ne La bella addormentata con il caso Englaro. È un cinema che torna a Francesco Rosi, a Salvatore Giuliano, alla madre che si dispera accanto al cadavere del bandito. Buscetta ha gli incubi, sogna di essere circondato da familiari in lacrime, mentre chiudono la bara per seppellirlo. L’unica soluzione per tornare a “vivere” è parlare, cercando di convincersi che la mafia un tempo avesse dei valori.
Il regista sceglie di raccontarci la seconda parte dell’esistenza di Buscetta. Dopo la fuga dal carcere di Torino, la latitanza in Brasile, l’arresto, l’estradizione, l’incontro con Giovanni Falcone… All’inizio si assaporano le atmosfere de Il padrino, quasi gli eccessi di Scarface. Di grande effetto la sequenza della “tortura” in elicottero. Poi si passa alle udienze, ai confronti con quelli che sono stati i suoi compagni di viaggio.
In qualche modo Buscetta (il mafioso) è l’altra faccia di Aldo Moro (il martire) in Buongiorno, notte. I due hanno in comune l’essere prigionieri, l’impossibilità di tornare a essere liberi, la paura di essere ammazzati. L’uno è una vittima del terrorismo, il simbolo dell’attacco alla Stato. L’altro è una persona che non ha alternative e sceglie di combattere la Piovra, di condannare la brutalità. Gli hanno anche ucciso i figli. Moro era segregato in un appartamento, Buscetta fa dentro e fuori da strutture protette, dalle aule bunker.
Ma Il Traditore è molto più ambizioso di Buongiorno, notte. Attraverso il tormento di un uomo, scatta l’istantanea di una delle pagine più buie dell’Italia. È un grido di giustizia, un documento prezioso, che con forza ragiona sui molti volti del pentimento, sincero o per circostanza. Con un’implacabile sete di vendetta che non riesce a sopirsi. Ma Bellocchio non si schiera. Non esalta il suo protagonista, si mostra anche critico, lo attacca attraverso le parole dell’avvocato di Andreotti. Buscetta è prima di tutto umano. Ama la sua famiglia, ma mette sé stesso sempre al primo posto. È pieno di sfaccettature, non è un criminale tout court. Ma le sue colpe restano in secondo piano. Al banco degli imputati ci sono gli intrallazzi, le amicizie nelle alte sfere, il rimorso delle istituzioni per non aver saputo proteggere i veri eroi (Falcone, Borsellino…). Nella parte di Buscetta, un ottimo Pierfrancesco Favino.