Era sempre disponibile, soprattutto quando si trattava di parlare della sua terra, delle pievi romaniche in rovina e dei grattaceli di Rimini che si mangiavano la sua spiaggia.
Con Tonino Guerra muore un grande poeta, il poeta che ha saputo prestare la voce alla sua Romagna, rendendola il paradigma di sentimenti universali. Non a caso l’hanno definito l’Omero di Rimini, e non solo perché gli aveva dedicato un grande omaggio riscrivendo l’Odissea e trasformando il suo amatissimo Ulisse in un eroe romagnolo.
Tonino Guerra ha scelto di morire proprio a Sant’Arcangelo, nella collina riminese, dov’era nato il 16 marzo di 92 anni fa. Da qualche mese, quando si era reso conto di essere vicino alla fine, aveva voluto tornare nella sua casa situata proprio nel centro del paese, vicino ai suoni e ai rumori della sua gente. Per questo aveva lasciato l’amatissima Casa dei Mandorli, nella campagna di Pennabilli, in Valmarecchia, dove si era trasferito da una ventina d’anni, al suo ritorno dai successi romani.
E’ stato un uomo generoso, anche nella sua produzione poetica. Come sceneggiatore, ha collaborato coi più grandi registi, da Antonioni a Tarkovskj a Fellini. Premio Oscar per Amarcord, non si è tirato indietro quando si è trattato di trasmettere i suoi valori affidandoli agli spot televisivi.
Poeta della parola ma anche pittore, era un uomo innamorato della bellezza in tutte le sue forme. Il suo orto dei sapori perduti, nel rifugio di Pennabilli, è stato visitato da grandi di tutto il mondo e da gente comune.
Il suo genio ha trasformato vecchi mobili in opere d’arte e ha salvato antiche Madonne dalla distruzione.
“Il rispetto per il passato è tutto”, ripeteva, “mio nonno si voltava sempre indietro a guardare, e lo faccio anch’io”.
Per questo si è fatto sempre accompagnare dalla memoria e dai sogni della sua infanzia, che ci hanno regalato la sua poesia.
Simonetta Pagnotti
Solo cinque giorni fa aveva compiuto 92 anni e avevamo scritto di lui. Ci ha lasciati oggi Tonino Guerra, sceneggiatore e poeta, ricordato sempre come collaboratore di grandi registi, da Fellini ad Antonioni, al greco Theo Angelopoulos, scomparso due mesi fa.
Vogliamo ricordarlo, invece, per le sue qualità umane, a iniziare da una forza interiore che gli ha dato la carica necessaria a sconfiggere per due volte il tumore al cervello, che poi purtroppo si è nuovamente ripresentato.
Il “maestro” aveva poi una forte passione per la sua terra, la Val Marecchia, per il paesaggio in generale e per gli alberi in particolare. Pare che se ne fosse andato dal suo paese, Sant'Arcangelo di Romagna, per trasferirsi a Pennabilli, dopo aver litigato per un ciliegio che desiderava fosse piantato in piazza, ma che il sindaco di allora non volle.
Non sarà una coincidenza che Tonino Guerra è scomparso proprio ora che i ciliegi sono tutti in fiore. E così i mandorli, amati anch'essi. Diceva spesso: “Ricordati che noi poeti fiutiamo il futuro perché guardiamo i mandorli in fiore”.
Sua l'idea di creare a Pennabilli l'Orto dei frutti dimenticati, proprio nel centro storico, in un terreno abbandonato, che era stato l'orto del convento dei frati missionari. Si tratta di alberi da frutto appartenenti alla flora spontanea delle campagne appenniniche, presenti nei vecchi orti delle case. Meli e peri, ma anche l'azzeruolo (piccole bacche rosse o gialle dal sapore di mela), la pera cotogna, la corniola (una sorta di ciliegia allungata), il giuggiolo (che produce delle "olive" dolciastre, da cui l'espressione “stare in un brodo di giuggiole”), l'uva spina o ancora il biricoccolo (una susina con la buccia vellutata come quella dell'albicocca).
Così come un archeologo arboreo, ha dato un contributo alla riscoperta di piante dimenticate, lo stesso lavoro l'ha fatto con la lingua, restituendo dignità al dialetto.
Le sue raccolte di poesie, come "I scarabocc" e "I bu" sono state apprezzate da Carlo Bo ed Elsa Morante e gli italiani hanno scoperto così il romagnolo, in un periodo in cui l'italiano prendeva piede e ci si iniziava a vergognare di parlare il dialetto.
Nessuna vergogna, invece per Guerra nel parlare il dialetto, nell'essere contadini o anziani. Con la sua poetica ha dato valore alle persone semplici, alle piante semplici e alle parole di uso comune e di questo non finiremo mai di ringraziarlo. Chissà se il 16 marzo avrà sentito le parole dei sindaci della Val Marecchia, riuniti sotto le sue finestre o i bambini cantare “Romagna mia”.
Non ha potuto alzarsi dal letto ma quell'affetto deve essergli arrivato e lo avrà accompagnato nel suo ultimo viaggio terreno.
Gabriele Salari