Elio Germano, 39 anni, con l'Orso d'argento
Non era facile misurarsi con Antonio Ligabue: nell’immaginario degli italiani il pittore naïf malato di mente resta legato all’interpretazione che ne diede Flavio Bucci, scomparso il 18 febbraio scorso, nello sceneggiato diretto da Salvatore Nocita nel 1977. «Ma io non ho voluto vederlo prima», dichiara Elio Germano, straordinario protagonista di Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, «per non lasciarmi influenzare. Girando nelle zone di Gualtieri, il paese emiliano dove Ligabue, nato e cresciuto in Svizzera, era approdato dopo essere stato espulso per comportamenti aggressivi, la gente fa confusione tra i ricordi del vero Ligabue e gli episodi raccontati nello sceneggiato».
Un’interpretazione mimetica la sua, dà l’impressione di essere proprio Ligabue, non di recitarlo. Come ci è riuscito?
«Un grande merito va al trucco. Sedute di quattro o cinque ore ogni giorno che mi hanno trasformato in lui e così ho potuto concentrarmi sull’interpretazione. Pure l’abbigliamento era particolare: si metteva anche tre paia di pantaloni uno sull’altro, e abiti femminili arrotolati sulla cintura».
Come si è documentato?
«Non ci sono molte testimonianze visive di lui. Solo pochi filmati, qualche registrazione che abbiamo rivisto e ascoltato, il regista e io, in loop per assorbirne sguardi e movenze».
Ha dovuto sottoporsi a un provino o il regista aveva proprio in mente lei per questa parte?
«Con Giorgio Diritti avevamo un altro progetto insieme che poi non è partito. Nessun provino, e abbiamo costruito insieme il personaggio».
Per immedesimarsi nel ruolo ha anche preso lezione di disegno?
«Sì, volevo impratichirmi nelle tecniche pittoriche, per esempio la miscelazione dei colori. All’inizio, quando viveva randagio, li ricavava dalla natura. Una delle cose che mi ha più colpito era la sua capacità di dipingere animali esotici che non aveva mai visto, come le tigri».
Che ritratto ne darebbe in poche parole?
«Io lo trovo un personaggio shakespeariano. Ha vissuto momenti di grande dolore e incomprensione, grazie ai quali ha trovato nell’arte un modo per sopravvivere».
Lei ha interpretato un altro grande artista infelice, Leopardi, nel Giovane favoloso di Mario Martone, per cui ha vinto di David di Donatello. Hanno qualcosa in comune questi due personaggi?
«Leopardi viveva di parole, abitava più nel suo cervello che nel suo corpo. Ligabue aveva una fisicità animalesca, la pittura per lui era un modo per parlare, comunicare».
Lei ha vestito i panni anche di un altro “diverso” come san Francesco.
«Qualche analogia tra il santo di Assisi e Ligabue ce la trovo. La povertà, il donare tutto agli altri, il fatto che parlavano con gli animali. Ligabue non aveva però una dimensione spirituale, era piuttosto un blasfemo, un bestemmiatore».
Come è iniziata la sua avventura nel mondo della recitazione?
«Devo molto ai miei due maestri Cristiano Censi e Isabella Del Bianco della Scuola Teatro azione che ho frequentato a partire dai 14 anni. Ci sono finito per una dritta di Paolo Poli. Mia nonna sapeva che mi piaceva recitare e siccome aveva lavorato nella portineria di uno stabile in cui abitava il grande attore teatrale lo chiamò per chiedergli un consiglio e lui la indirizzò a quella scuola. Purtroppo, però, non ho mai avuto occasione di ringraziarlo di persona. Finita la scuola ho iniziato con delle piccole parti, ma non riuscivo a ingranare e stavo quasi per rinunciare. Poi è arrivata la proposta per recitare in un’opera di Shakespeare, sono stato notato dal cinema e ho girato il mio primo film, Il cielo in una stanza dei fratelli Vanzina. Da lì non ho più smesso».
Nel suo percorso artistico c’è anche un aspetto più inedito: è un cantante rap. Come ha cominciato?
«Faccio parte dal 1998 del gruppo Bestie rare. Siamo amici con percorsi diversissimi tra di loro. Ancora adesso ci esibiamo e abbiamo inciso degli album. Siamo legati al mondo delle posse, nati con l’idea di trovare un nostro modo di espressione. È una sfera che mantengo per dire cose mie, infatti scrivo anche i testi delle canzoni. Il rap di oggi è un po’ diverso da come lo intendo io. Io seguo quelli che, come noi, vogliono raccontare qualcosa e non collezionare visualizzazioni».