E’ passato un altro 4 maggio da quello del 1949, quando alle17 di un pomeriggio di tempesta l’aereo che riportava a casa la squadra di calcio detta Grande Torino si schiantò sulla collina di Superga, a pochi minuti dall’atterraggio. Morti tutti: i diciotto giocatori del quinto scudetto consecutivo, i dirigenti, i tecnici, i giornalisti al seguito, quelli dell’equipaggio capitato dal comandante Luigi Meroni, stesso nome e stesso cognome di un giocatore, sempre del Torino, che sarebbe morto o nel 1967, travolto da un’auto davanti a casa sua, e l’auto era guidata dal tifoso che sarebbe poi diventato presidente dello stesso club, secondo una sequenza, una una nemesi persino allucinanti.
E’ passato un altro 4 maggio ed è stato il più brutto forse di tutti, compresi quelli del dolore ancora “fresco”, e anche se, contrariamente ad una tradizione quasi feroce, non ha piovuto. Alla basilica di Superga, dove il cappellano della squadra, don Aldo Rabino, un salesiano caldo e intelligente, officiava la messa, alcuni tifosi della categoria detta ultras hanno infatti pesantissimamente contestato il presidente del Torino Urbano Cairo, presente alla cerimonia nonostante certi minacciosi avvertimenti e certi precedenti (l’anno scorso era rimasto a casa). Protetto da guardie del corpo e polizia, confortato dagli applausi di altri tifosi, aiutato dalle parole di don Aldo che ha condannato ogni violenza, Cairo ha assistito in piedi a tutta la cerimonia.
Tra serie B e serie A
Urbano Cairo è un editore alessandrino che lavora a Milano e che nel
2005 ha rilevato, tra tanti entusiasmi, il Torino, in B dopo un
fallimento. La squadra sotto la sua gestione ha fatto un andirivieni
triste fra la serie B e la serie A, adesso sta in B con la speranza
di disputare i playoff, quattro squadre per un posto in A. Gli ultras lo
contestano a ogni partita, anche se lui ormai non si fa vedere allo
stadio, gli hanno fatto pervenire minacce pesanti , anche in stile
mafioso (teste di animali) a Milano, hanno imbrattato per sbaglio la
casa di un altro Cairo a Masio, il suo paese natale.
Lui un giorno si dice stanco, un altro giorno si proclama pronto a
combattere. Dice di non voler vendere il club, dice anche che non ci
sono offerte valide. A Torino, intanto, si è scatenata la
ressa/rissa pre-elettorale sul Filadelfia, sui ruderi cioè dello stadio
che ospitò le partite (nessuna sconfitta, nel dopoguerra) del Grande
Torino che interpretava la voglia di rinascita del Paese in emersione
dal mare di macerie. Molti candidati al governo della città promettono,
se eletti, in via Filadelfia la nascita, l’epifania anche repente di un
vero impianto per gli allenamenti, con le gradinate per i tifosi più
assidui, con una sede sociale all’altezza della tradizione.
Sulle orme di Valentino Mazzola
Tutte promesse fasulle: l’area, che interessa casomai per le
licenze commerciali che ancora consente, pretende troppi soldi per una
ricostruzione come i tifosi sognano. Cairo non ha la possanza
economica per fare tutto da solo, il Comune darà al Torino in quasi
esclusiva lo stadio olimpico (da luglio la Juventus si trasferirà nello
stadio nuovo di proprietà del club), che è a due passi dal Filadelfia.
Se si parlasse di un giardino della memoria, con i bimbi che giocano a
palla calpestando l’erba che calpestarono Valentino Mazzola e i suoi
compagni e facendo il girotondo intorno ad un cippo, un altarino con
i nomi dei campioni, crederemmo alla voglia vera di ridare ai tifosi il
tempio o qualcosa di simile. Ma si parla di tanto, di troppo, per non
fare nulla.
Comunque la vicenda del Grande Torino, allora in chiave di gloria,
adesso in chiave di ricordo, di commemorazione più o meno turbolenta del
4 maggio, rimane affascinante anche nella sua tristezza. Da quel
1949 un solo scudetto (1976), tanta serie B, la non resistibile ascesa
cittadina della ricca Juventus…, ma anche l’impreziosimento di un
amore, persino e più che mai in quelli che del Grande Torino non hanno
visto direttamente nulla (e restano in tutto diciannove minuti di
filmati, dei quali neanche la metà di azioni di gioco), a fare contrasto
col decadimento del club e della squadra.
E gli ultras contestano
Una lezione di affetto, di coltivazione del mito, di voglia del
tempio (il Filadelfia detto Fila): anche se con screpolature, con
frange brutte. Un patrimonio morale che cresce nel tempo, anziché del
tempo patire il logorio. Vero che nel mondo di adesso questo aggettivo,
"morale", rischia di un essere un limite. E forse gli stessi ultras che
contestano Cairo perché non ha ridato a loro la grande squadra,
commettendo grossi errori e non potendo o volendo sostenere grosse
spese, sarebbero pronti a rinunciare alle voglie di Filadelfia in cambio
di un acquisto sensazionale di qualche gaglioffo milionario.
Comunque in archivio un altro 4 maggio, asciugate le lacrime che
noi vecchi ci permettiamo sempre, spupazzate le speranze che sono
sempre le ultime ma non finiscono mai, rinnovate per Cairo le
amarezze, le avversità figlie anche delle avversioni, resta questo Toro
che ha pur sempre, dicono, il sesto bacino nazionale di utenza diciamo
sentimentale, anche se sta in serie B. Col solito - ormai - problema:
stare nei cuori per ragioni morali è, al giorno d’oggi, un vantaggio o
un handicap?