La sentenza della Cassazione che ha sancito il diritto di morire con dignità per il “capo dei capi” Totò Riina, la belva dei 17 ergastoli, il mandante delle stragi più efferate compiute da Cosa Nostra, ha semplicemente affermato un principio basilare di uno Stato di diritto valevole per qualsiasi uomo e dunque anche per il “capo dei capi”. Un principio che va interpretato alla luce delle legittime, anzi direi sacrosante preoccupazioni dei magistrati sulle modalità in cui deve essere garantita questa dignità. Stiamo parlando di un mafioso. E' chiaro che se il ritorno del boss a Corleone diventa una glorificazione di Cosa Nostra e un motivo di rinnovato slancio dei mafiosi Riina deve morire da un'altra parte, in un hospice per esempio, o in un ospedale, come avviene per tanti italiani. Eppure questa semplicissima affermazione di principio ha scatenato gli istinti più viscerali in un Paese che si dice civile e cristiano, la culla del diritto penale e civile per definizione. C'è qualcosa di più intorno a questa vicenda, un veleno sottile e rabbioso che circola nell'opinione pubblica e che finisce per offuscare la ragione, come direbbe Sciascia.
Dal gennaio 1993 Totò Riina, 86 anni, soprannominato per la sua efferatezza "la belva", vive in una cella di dodici metri quadrati per 22 ore al giorno. Non può ricevere visite, non può effettuare lavori artigianali, non può appendere nemmeno foto alle pareti né ricevere libri (casomai avesse mai avuto voglia di leggerne uno) e tantomeno giornali. La sua detenzione è congegnata in modo che si possa spostare solo di pochi metri anche quando effettua le due ore d’aria al giorno con altri tre detenuti rigorosamente selezionati e lontani dal suo ambiente mafioso. Per seguire i processi, ora che è gravemente malato, viene spostato in una saletta a pochi metri di distanza dove assiste in barella al dibattito processuale attraverso una tv. E’ questo il suo mondo tombale da 24 anni: il regime del 41 bis. L'unica eccezione è quando viene ricoverato in ospedale.
Eppure a sfogliare i giornali, a leggere i commenti, gli editoriali, le interviste, c'è tanta gente - anche tra uomini delle istituzioni, non solo tra i maitres-à-penser della carta stampata - contraria di principio a fargli vivere gli ultimi istanti della sua lunga e maledetta vita dentro un letto che non sia quello della sua cella. Perché? Una delle motivazioni è che Riina è ancora il capo dei capi e dà ordini alla mafia. La domanda - semmai fosse vero - è come diavolo fa il detenuto Totò Riina a dare ordini e a comandare in quelle condizioni di detenzione, ora che ha 86 anni ed è semiparalizzato. Una domanda, se si basasse su presupposti veri, da rivolgere all'ordinamento penitenziario e agli apparati di sicurezza.
Ma non ci sono soltanto ragioni di sicurezza. Anche la morale vuole la sua parte in questa faccenda. Si pubblicano paginate di interviste al coro dei parenti delle vittime della mafia, affidando al dolore dei familiari il diritto di fare giustizia, tornando indietro a 2600 anni fa, quando ad Atene il legiferatore Dracone strappò ai parenti delle vittime la pratica di farsi giustizia da soli e legiferò sui fatti di sangue affidandone le sentenze ai giudici. Si strumentalizza il dolore, che è individuale, per sostituirsi alla giustizia, che parla a nome di tutti. In un Paese civile il dolore delle vittime dà un senso alla giustizia, non si sostituisce ad essa.
Non parliamo poi di quello che gira nei social networks, le suburre postmoderne dove la corsa al peggio del peggio è diventato il pane quotidiano, inarrestabile e incontrollabile come la folla impazzita di Torino. Nel reame di Facebook vige a furor di popolo la legge del taglione. Girano foto con sentenze da giustizia afghana di parenti delle vittime, o foto delle stragi di Capaci e Via D’Amelio corredate da frasi tipo: “Loro non hanno avuto la possibilità di morire con dignità”. Un non-senso barbarico utile a vellicare le viscere ma non a ragionare sulla nostra umanità e sui principi di un ordinamento giuridico. Lo vorrebbero tutti a marcire in galera il mostro dei mostri, senza cure e senza conforto religioso e già che ci siamo senza morfina. Anche quei cattolici ferventi che hanno applaudito Francesco quando ha indicato come principio di detenzione il superamento dell’ergastolo, la cancellazione del “fine pena mai” in nome di quella possibilità di ravvedimento che deve esser dato a qualunque uomo, anche negli ultimi istanti della propria vita. Nessun uomo dovrebbe morire in carcere, figuriamoci in una cella del 41 bis. che è poco più di un canile. Anche se stiamo parlando di un mafioso che è soprannominato "la belva" e che per giunta non si è mai ravveduto come il buon ladrone.
Non ci rendiamo conto che negando la dignità a un moribondo si applicano gli stessi principi barbarici di Riina e della mafia, che infatti procede esattamente così: senza pietà, senza processo, senza alcuna umanità e misericordia, torturando, scannando, massacrando. Proprio così: siamo scesi allo stesso livello degli ometti mafiosi e della loro morale primitiva. Perché è questo quello che questo disgraziato Paese, offuscato dalla rabbia e dall’ignoranza, non vuole capire: Riina deve morire con dignità soprattutto per noi stessi, per rispetto nei confronti della nostra superiorità civile e cristiana rispetto a quella dei mafiosi, per il nostro senso di giustizia forte e pacato che è infinitamente superiore a quello di Cosa Nostra. La pena principale di Riina è stata quella di posare sotto il ritratto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, quel 15 gennaio 1993, giorno dell’arresto. Avere pietà di un mostro come Riina e non farlo morire come un cane significa prima di tutto avere pietà per noi stessi e riguardo per il nostro senso di umanità, per la nostra superiorità morale. La nostra superiorità sta proprio nel concedere al mostro quella dignità che lui non ha mai avuto con il genere umano. Altrimenti Riina e Cosa Nostra hanno prevalso ancora una volta.