L’adolescenza è una lunga e complessa fase di cambiamento,
caratterizzata da microtransizioni e ristrutturazioni
continue dell’identità, di cui appare
sempre più sfumato il tramonto verso l’emergenza
dell’età adulta. Se lo sviluppo umano si caratterizza come
un ciclo continuo dalle infinite possibilità e trasformazioni,
possono comunque individuarsi particolari
momenti di transizione, che implicano una qualche
forma di rottura fra un prima e un dopo. Questi momenti,
interrompendo e perturbando il corso della storia
personale, si distinguono come “momenti di crisi”,
di perdita di punti di riferimento abituali e, proprio
per questo, richiedono una ristrutturazione e riorganizzazione
delle caratteristiche dell’individuo. In tal senso
possono rappresentare importanti opportunità di sviluppo,
mediante le quali la persona, per far fronte alle
richieste poste dalla situazione di incertezza, prova ad
acquisire nuove competenze cognitive e sociali.
L’approccio narrativo legge l’esperienza della transizione come rottura della canonicità (Aleni Sestito, 2004). Per Bruner (1996) le transizioni rappresentano dei “punti di svolta” (turning points), momenti cruciali nella vita di ognuno che segnano la rottura delle routines. I punti di svolta, cioè, si configurano come opportunità di violazione della “canonicità”, attraverso le quali ciascuno può allontanarsi da un copione implicito per intraprendere strade nuove, per conferire originalità e unicità al proprio percorso.
Bauer e McAdams (2004) ipotizzano che lo sviluppo possa dipendere anche dal significato che ciascuno attribuisce alle proprie esperienze che accompagnano e caratterizzano i punti di svolta, importanti perché configurano le variazioni decisive attraverso le quali il soggetto esce dalla banalità di un percorso convenzionale. La canonicità, però, può essere “rotta” anche attraverso l’adozione di comportamenti antisociali. Una transizione, infatti, può essere l’occasione per instaurare nuove relazioni, fare esperienza di nuovi ruoli identitari, ridefinire il proprio Sé, ma essa può, al contempo, rendere il soggetto più fragile e vulnerabile dal momento che non sempre i cambiamenti sfociano in occasioni di evoluzione per la persona
(Aleni Sestito, 2004).
La narrazione, presente
longitudinalmente nello
sviluppo individuale e manifestazione
della tendenza
tipicamente umana a
raccontare quanto accade,
conferisce significato
alle azioni di un individuo,
perché lo presenta
agli altri nel modo in cui
egli reputa opportuno rispetto
al sistema simbolico
individuale e culturale
(Bruner, Lucariello,
1989; Lorenzetti, Stame,
2004). In particolare, in
adolescenza la narrazione
autobiografica può rappresentare
il mezzo mediante
il quale l’esperienza
transizionale viene ricondotta
a unità e coerenza,
per trovare un filo conduttore
che le dia senso.
Se è vero che la narrazione costituisce lo strumento privilegiato di cui il pensiero narrativo si serve per organizzare e dare forma all’esperienza soggettiva e intersoggettiva e per mezzo del quale esso trova espressione, lo è ancora di più durante l’adolescenza perché permette di rispondere all’urgenza tipica di questo periodo di “raccontarsi” e raccontare agli altri il proprio modo di essere e di diventare adulto, di vivere e di gestire la vita quotidiana e le emozioni che questa porta con sé. La narrazione rappresenta dunque una metafora vincente: raccontare storie è da sempre nelle culture orali, come in quelle alfabetizzate, una modalità accettata anzi favorita per esprimere emozioni, intenzioni, desideri.
D’altra parte è da tempi piuttosto recenti che la comunità scientifica e accademica si è accostata al tema “emozioni e adolescenza”. Si tratta di un oggetto di studio relativamente nuovo, i cui contributi più significativi risalgono a Bloss (1962; 1979) che, analizzando la vita emotiva degli adolescenti da una prospettiva psicoanalitica, ha sottolineato l’estrema fragilità emotiva che emerge durante questa fase della vita.
Durante l'adolescenza, secondo Pietropolli Charmet
(2000; 2005), avviene
un “debutto sulla scena sociale”:
il ragazzo sperimenta
per la prima volta
relazioni con i pari e amorose
che non vengono più
monitorate dal genitore.
L’intensità media delle
esperienze emotive, soprattutto
se confrontata
con le fasi precedenti e
successive del ciclo di vita,
risulta piuttosto elevata
per ognuna delle emozioni
di base. La novità e l’impegno
sul piano relazionale,
determinano un forte
coinvolgimento emotivo
e affettivo, che connota le
esperienze in corso e modula
il processo di costruzione
dell’identità. Lo studio
delle emozioni, condotto
attraverso l’approccio
narrativo, si è sviluppato
in modo dirompente a
partire dagli anni Novanta.
Tale approccio può essere
inquadrato all’interno
della ricerca naturalistica,
di quella ricerca,
cioè, che consente di raccogliere
dati non solo sul
nome attribuito a una data
emozione, ma anche
sul significato che essa
rappresenta per la persona
che racconta, così come
si produce e agisce
nell’ambito dei setting naturali.
L’interesse per questo
tipo di studi è legato alla
svolta narrativa che ha
messo in luce la centralità
della narrazione nella vita
umana, in quanto mezzo
fondamentale per attribuire
significato all’esperienza
(Bruner, 1996).
Tradizionalmente la ricerca ha dedicato il suo interesse alle emozioni negative anche per le loro implicazioni psicopatologiche: la depressione, per esempio, sarebbe collegata alla tristezza, l’aggressività incontrollata alla rabbia, le fobie alla paura e così via. Nell’ambito delle teorie delle emozioni, quelle a valenza positiva hanno sempre rappresentato, in modo più o meno esplicito, un problema: pensiamo per esempio alla funzione che le emozioni negative hanno dal punto di vista evoluzionistico. Altrettanto non si può dire di quelle positive: non è cosa semplice, per esempio, spiegare perché proviamo felicità oppure quale funzione abbia la gioia.
L’autobiografia è per
Bruner (1996) uno strumento
di cui il soggetto dispone
per poter dare senso
contemporaneamente
al Sé e al proprio essere al
mondo, attraverso la “ricostruzione
interpretativa”
degli eventi della propria
vita. Dal punto di vista sperimentale,
però, è molto
complesso studiare la relazione
tra memoria ed
emozioni, per motivi sia
metodologici che etici.
In alcuni casi, infatti, bisognerebbe
far rievocare
al soggetto delle emozioni
molto negative; è noto
inoltre che rievocare emozioni
terrificanti possa indurre
delle amnesie che
vengono definite psicogene
(Ciambelli, 2004).
Uno strumentomolto usato
con gli adolescenti e
che permette di ovviare a
questi limiti, è il diario. In
quanto strumento self-report
può essere usato
dall’adolescenza in poi e
necessita di un controllo
minimo da parte del ricercatore,
il quale si limita a
chiedere ai partecipanti
alla ricerca di registrare le
emozioni provate nell’arco
di tempo definito e secondo
uno schema di risposta
più o meno strutturato.
Per esempio si può
chiedere di trascrivere, oltre
alla descrizione
dell’emozione e del suo
contesto di attuazione
(dove si è, e in presenza
di chi quando la si prova),
l’intensità con cui la si è
provata su una scala da 1
a 10 e la durata (Grazzani
Gavazzi, Ornaghi, 2007).
Il diario consente di osservare, studiare e comprendere lo stato del Sé, e di costruire un ponte tra situazioni passate, presenti e future, innescando in forma di racconto sia rievocazioni che interpretazioni e proiezioni di esperienze. In numerose ricerche si utilizza una procedura narrativa più “economica” del diario, e cioè il compito di rievocazione orale o scritta di episodi emotivi a partire da stimoli minimi come, per esempio: «Descrivi un episodio della tua vita in cui ti sei sentito/a felice», oppure: «Prova a spiegare cosa significa per te essere felice » (Grazzani Gavazzi,Ornaghi, 2007). In altri casi si fanno compilare diversi questionari corrispondenti a diversi stati emotivi, quali la tristezza, la paura, il senso di colpa, la vergogna, la gelosia, la felicità e la rabbia. Per ogni termine emotivo si chiede di raccontare un evento elicitante l’emozione presa in considerazione (Ciambelli, 2004). Quando si utilizzano metodi narrativi si raccolgono tante informazioni che vanno però circostanziate e analizzate a partire dagli obiettivi della ricerca, altrimenti si hanno parole non utilizzabili. In letteratura i contributi che aiutano a orientarsi all’interno di questo panorama metodologico sono piuttosto frammentari e variegati (Mantovani, Spagnolli, 2003). Le procedure utilizzate per analizzare le storie raccolte in contesti di ricerca sono molteplici e pochissimi sono i contributi che cercano di riflettere criticamente sulle differenti metodologie e di sistematizzarle. L’eterogeneità dei metodi dipende, da un lato, dai diversi interessi alla base delle singole ricerche, dall’altro è dovuta al fatto che il pensiero narrativo può essere analizzato lungo una miriade di dimensioni.
Sulle narrazioni si possono
fare diverse analisi
quantitative e qualitative,
come per esempio: il numero
di parole indicanti
emozioni positive quando
si narra un evento negativo
e viceversa, oppure la tipologia
di eventi narrati
per ciascuna emozione.
In particolare, lo studio
del lessico psicologico degli
adolescenti, inteso come
punto d’accesso
all’esperienza emotiva interiore,
e analizzato impiegando
il diario e l’autobiografia ha portato a risultati
interessanti per le implicazioni
di intervento oltre
che di ricerca. Da diverse
ricerche (Grazzani Gavazzi,
Ornaghi, 2007) è emerso
che il vocabolario emotivo
degli adolescenti è
ampio e complesso, e che
essi sono capaci di descrivere
riccamente tanto le
emozioni di base quanto
quelle complesse. Nello
specifico l’emozione maggiormente
sperimentata è
la felicità, ma vengono frequentemente
citate anche
ansia, paura, rabbia,
disgusto, invidia, gelosia,
vergogna, imbarazzo e tristezza,
che vengono sperimentate
con forte intensità;
l’emozione negativa
maggiormente riferita è
la tristezza,mentre la paura
viene riferita soprattutto
dai preadolescenti in
relazione sia a situazioni
relazionali (scuola, casa,
gruppo di amici, contesti
sportivi) sia a prestazioni
scolastiche o sportive.
Dall’analisi delle situazioni che elicitano le emozioni emerge la dimensione sociale e relazionale dell’esperienza emotiva, in quanto, soprattutto rispetto alle emozioni positive, i contesti nei quali queste vengono sperimentate sono rappresentati soprattutto dai luoghi di ritrovo, dalla scuola e anche dalla famiglia; la tristezza invece viene spesso vissuta individualmente, e nelle fasi avanzate dell’adolescenza viene riferita con più frequenza in relazione a vissuti di perdita e delusione. Altri studi (Barone, 2007) hanno confrontato attribuzioni di significato alle emozioni di campioni normativi e adolescenti a rischio: entrambi i gruppi hanno manifestato difficoltà nel verbalizzare la vergogna e la colpa, mentre le differenze riguardano gli ambiti dell’esperienza che influenzano il vissuto emotivo. Mentre per il campione normativo è importante la dimensione del successo/fallimento nel raggiungere obiettivi, i ragazzi a rischio mettono al centro l’esperienza del subire ingiustizie e torti. Man mano che l’adolescente si avvicina all’età adulta il suo vocabolario emotivo si fa più dettagliato, e le descrizioni delle emozioni risultano meno ancorate all’azione e ai correlati comportamentali per focalizzarsi sugli aspetti interni. Per quanto riguarda le differenze tra maschi e femmine, in letteratura si evidenzia come le donne riferiscano più emozioni dei maschi e siano più propense a parlare delle proprie esperienze, ma è vero anche che i maschi hanno atteggiamenti diversi, rispetto al parlare delle emozioni e delle esperienze personali, a seconda del partner conversazionale. Queste differenze di genere derivano certamente dal modo in cui i bambini vengono socializzati alla comprensione delle emozioni nell’ambito delle prime interazioni con i genitori. Numerosi lavori che hanno studiato il modo in cui le madri parlano con i loro bambini di esperienze emotive hanno mostrato che il comportamento delle madri nei confronti delle figlie femmine è qualitativamente diverso da quello adottato nelle interazioni con i figli maschi. Secondo Fivush (1994), infatti, la cornice all’interno della quale hanno luogo le conversazioni sulle emozioni tra madri e figlie è di tipo “socio- relazionale”, e in essa le emozioni vengono descritte come legate alle persone e l’esperienza emotiva viene collocata nel contesto sociale e relazionale; le conversazioni madre-figlio avvengono invece all’interno di una cornice definita di tipo “autonomo”, nella quale le emozioni sono relazionate con gli oggetti del mondo fisico e l’esperienza emotiva viene concepita come un fatto privato. Inoltre, le madri parlano maggiormente di emozioni con le figlie, e impiegano un lessico più vario.
L’espressione delle
emozioni in adolescenza
è stata studiata in relazione
allo sviluppo del lessico
emotivo. Diversi possono
essere i metodi usati,
comune è la finalità applicativa
e conoscitiva. Sé e
Identità si costruiscono
narrandosi e la narrazione
di Sé ha almeno due
aspetti fondamentali: non
si coniuga solo al passato
e nel modo indicativo, ma
anche al futuro e nel modo
congiuntivo.
Capire qual è il mondo dei ragazzi che si può “sbirciare” a partire dal loro narrato, potrebbe fornire utili indicazioni sia preventive sia di intervento. Per esempio, da ricerche recenti si evince che potrebbe essere stravolta la tendenza frequente nel passato di attribuire la tristezza più frequentemente alle narrazioni delle adolescenti, mentre la rabbia alle narrazioni degli adolescenti maschi. Sapere che nelle raccolte dei diari le ragazze sembrano raccontare più dei ragazzi eventi di rabbia, può fornire utili spiegazioni di eventi culturali condivisi e, allo stesso tempo, dare utili indicazioni di carattere educativo.