Ieri, 19 marzo, le parole della Presidente della Camera Laura Boldrini, oggi – giorno del ventennale dell’omicidio di Ilaria e Miran – le dichiarazioni della Sottosegretario ai rapporti col Parlamento, Teresa Amici. Entrambe annunciano una novità che, se agli intenti seguiranno i fatti, costituiscono una svolta: migliaia di atti sotto segreto, alcuni da 20 anni e più, saranno resi pubblici. Non solo i documenti riguardanti il caso “Alpi-Hrovatin”, ma anche quelli sui traffici di armi e rifiuti, anche quelli provenienti dai nostri servizi segreti.
Dichiarazioni che possono rendere un po’ meno amara questa ricorrenza per la madre di Ilaria Alpi (il padre Giorgio purtroppo è mancato nel 2010). Ma meno amara anche per i tanti cittadini italiani che su questa e su tante altre vicende “dell’Italia oscura” vogliono verità.
Ancora pochi giorni fa Luciana Alpi diceva a Famiglia Cristiana (nell’intervista pubblicata sia sulla rivista che, oggi, sul sito) che da questo nostro Stato e da queste nostre istituzioni si era sentita sempre più tradita. In modo sistematico, aggiungiamo noi.
Quindi, un segno di svolta. A volte gli anniversari servono, e non solo per ricordare. La desecretazione di questa ingente mole di atti, però, non significa solo questo. È anche un “atto riparatore”, dopo che per due decenni le istituzioni del nostro Paese tutto hanno fatto tranne che prodigarsi per la verità, chiarire il “caso Alpi-Hrovatin” e le sue connessioni con la mala cooperazione italo-somala e i traffici d’armi e rifiuti tossici. Perché questo è ciò che fino a oggi si è verificato. Vogliamo ricordare solo qualcuno dei principali fatti che hanno costellato la ricerca della verità sulla morte di Ilaria e Miran?
Fin dai primi minuti dell’omicidio le nostre istituzioni sono risultate assenti. Nessuno (militari, polizia militare, pur presenti nella capitale somala) si reca sul luogo dell’omicidio. Il referto medico sui corpi effettuato a Mogadiscio scompare nel nulla. I bagagli vengono violati sul volo (militare) che li riporta in Italia. Scompaiono cassette, taccuini, macchina fotografica di Ilaria. Nessuno ritiene di dover effettuare l’autopsia sul corpo della giornalista al rientro a Roma.
Il seguito non è migliore. Cinque magistrati si susseguono alla guida dell’inchiesta senza portare ad alcun risultato apprezzabile. L’unico condannato, per concorso in omicidio, il somalo Hashi Omar Hassan, è ormai da tutti considerato un “capro espiatorio” (e si è già fatto una decina di anni di carcere), e il suo principale accusatore – Ahmed Ali Rage, detto Gelle – viene “perduto” dalla polizia prima ancora che inizi il processo. E dal 1998 a oggi (15 anni) non è stata in grado di ritrovarlo. All’unico magistrato che ottiene risultati investigativi, Giuseppe Pititto, viene tolta l’inchiesta proprio mentre stanno arrivando dalla Somalia alcuni testimoni oculari lungamente e difficoltosamente rintracciati. La Digos di Udine, che quei testimoni aveva rintracciato, viene esautorata dalle indagini. I servizi segreti occultano metodicamente ciò che sanno, e quando riferiscono qualcosa è per deviare le indagini su piste morte (come quella del fondamentalismo islamico come matrice dell’omicidio).
Non basta. Le poche vicende portate alla luce (da giornalisti, non dalla magistratura) sull’operato dei servizi d’intelligence italiana in Somalia, rivelano inquietanti coperture ai traffici illeciti e a chi li portava avanti.
Questo hanno fatto in vent’anni le istituzioni del nostro Paese. E non è tutto. Non va dimenticato il “gran finale”: la Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Carlo Taormina. Quella che doveva fare luce sulla morte dei giornalisti, e che invece concluse il suo lavoro votando a maggioranza una relazione nella quale si sosteneva, in sostanza, che non c’era alcun mistero, che i due giornalisti non avevano scoperto alcun traffico, che erano semplicemente finiti “nel luogo sbagliato al momento sbagliato”, che il viaggio in Somalia per Ilaria e Miran «era stato poco più che una vacanza» (parole di Taormina), che il depistaggio era stato operato da giornalisti, poliziotti e magistrati montando un caso inesistente.
Ecco, prima della “svolta”, prima dell’annuncio di Laura Boldrini e Teresa Amici, l’ultimo atto col quale il nostro Stato si era occupato del caso Alpi-Hrovatin era stata la contestatissima relazione conclusiva della Commissione Parlamentare (le due relazioni di minoranza dicevano cose ben diverse ma erano, appunto, di minoranza).
Ora attendiamo i fatti. In particolare, sull’operato della Commissione Alpi-Hrovatin occorre davvero spalancare le finestre. Forse allora avremo finalmente la risposta ad alcune domande pesanti come macigni. Ne formuliamo solo tre, delle tante: la prima, come e da chi fu procurata la presunta macchina su cui viaggiavano Ilaria e Miran al momento dell’omicidio? Quell’automobile risultò poi una “patacca”, non era l’auto dei giornalisti Rai. Eppure il presidente Taormina ci costruì l’impianto della sua ricostruzione e vietò alla Procura di Roma di partecipare alle perizie sulla vettura. Secondo, chi procurò i cosiddetti “testimoni oculari” che fecero da puntello alla teoria dell’“omicidio per caso” votato dalla maggioranza? Si potrebbe forse scoprire che chi “aiutò” Taormina a trovare i testi aveva parecchi interessi personali per farlo. Terza e ultima, chi decise di “bruciare” alcune fonti riservate vanificando possibili e cruciali piste investigative e, viceversa, mise alla gogna giornalisti e magistrati delegittimandone il lavoro d’indagine? E, soprattutto, con quale obiettivo lo fece?
Queste e tante altre risposte stanno in quelle migliaia di pagine, da anni sotto segreto. Un segreto che verrà tolto per merito dell’azione di due giornalisti, Andrea Palladino (anche nostro collaboratore) e Andrea Tornago, due testardi freelance che nelle scorse settimane hanno pubblicato sulle pagine del Manifesto un’inchiesta dalla quale risultava che solo 150 delle migliaia di atti sarebbero state svincolate dal segreto. E merito dell’associazione “Articolo 21” – fatta di giornalisti – che hanno lanciato la petizione su change.org, raccogliendo in pochi giorni oltre 60 mila firme. L’azione di questi colleghi è stata forse il miglior modo di rendere omaggio alla memoria di Ilaria e Miran.