Fra le sette tracce proposte quest’anno agli esami di Stato, quella sul “rispetto”, parola che lo scorso anno l’Enciclopedia Treccani ha richiamato alla nostra attenzione, mi sembra particolarmente azzeccata. I candidati potranno sbizzarrirsi osservando ciò che sta accadendo sotto ai nostri occhi.
Nel nuovo scenario digitale si ha infatti troppo spesso l’impressione di poter scrivere ciò che si vuole, come se potessimo passare indenni attraverso il fuoco che abbiamo acceso. Insulto gratuito, giudizi affrettati, descrizioni estemporanee, pettegolezzi, dicerie: nell’epoca dei social ogni asserzione sembra essere diventata lecita. È tutto molto veloce, non c’è tempo per approfondire. Trionfa l’affermazione priva di riscontro, la battuta raccolta senza verifica delle fonti, la superficialità, l’ignoranza, l’equivoco, il fraintendimento. Tutti dicono tutto e se qualcuno sbaglia causando un danno al prossimo, crede di non dover pagare il prezzo del risarcimento.
Tale schema mentale rischia di passare senza soluzione di continuità dagli schermi alla realtà.
La mancanza di rispetto, oggi dilagante ad esempio nel teatrino della politica, ma non solo, deriva anche dal venir meno delle coscienze critiche accreditate: nella frantumazione informativa siamo diventati tutti potenzialmente filosofi, artisti, professori, tribuni, psicologi e saggi. Non ci rendiamo conto che si tratta di un’illusione ottica.
Purtroppo molti giovani cadono in questa Rete (nel doppio senso, antico e cibernetico). Non c’è niente di più diseducativo che disattendere la responsabilià della parola. Per recuperare il rispetto perduto dovremmo insegnare ai nostri ragazzi che le parole da noi scritte e pronunciate sono come un boomerang: tornano sempre indietro e ti possono colpire in pieno viso. Dobbiamo essere pronti a fronteggiare ciò che abbiamo detto e fatto: nel bene e nel male. Soltanto così potremo diventare adulti, non in senso anagrafico, ma spirituale.