Kabir, pakistano, è «un realizzatore di sogni che aiuta le persone». Aleksandr, siberiano, si paragona addirittura a Mosè, mentre il turco Orhan sottolinea la professionalità con cui agisce. Cooperanti? Operatori sociali? No, passeur che aiutano a passare illegalmente muri e frontiere internazionali. Anzi, utilizzando il termine più in voga, “scafisti”. Spesso sono descritti come il male assoluto, i colpevoli dei viaggi della morte. Dategli addosso e risolveremo il problema. E daremo giustizia ai naufraghi, agli scomparsi, a chi ha pagato consapevolmente un servizio conoscendone i rischi, a chi si è indebitato per fuggire senza sapere nulla, a chi non aveva scelta. Insomma, un po’ a tutti.
E se provassimo a cambiare prospettiva? Per esempio assumendo quella della più grande e più spietata “agenzia viaggi del mondo”, che offre “pacchetti” diversi a seconda delle esigenze del “cliente”. Il tutto ha alle spalle un network criminale organizzato, che, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, intasca proventi tra i 3 e i 10 miliardi di dollari l’anno, un traffico secondo solo a quello della droga. Ci prova il libro “Confessioni di un trafficante di uomini” (Chiarelettere, 2014) del giornalista Giampaolo Musumeci e del docente di criminologia Andrea di Nicola, che hanno intervistato chi controlla e realizza lo smuggling, il traffico d’uomini.
«Mosè per me è stato il primo scafista della storia! E io sono come lui, come Mosè!», punta in alto con i paragoni Aleksandr. Prima di entrare nel giro, il Mosè siberiano era uno skipper che negli anni Novanta veleggiava con gli yacht dei primi russi arricchiti a Vladivostok, nell’estrema punta orientale della Russia, di fronte al Giappone. Quando è rimasto senza lavoro, è stato contattato dalla criminalità turca perché aveva postato un annuncio di lavoro sul web e il primo colloquio per l’“assunzione” è avvenuto via Skype, meno tracciabile dei cellulari. L’illusione di un ricco compenso, il trasferimento a Istanbul in un albergo spesato, fino al giorno in cui raccoglie con un gommone 31 migranti iracheni e afghani nascosti tra i cespugli dell’isola greca di Leucade per portarli fino in Puglia. Durante tutto il viaggio, riceveva ordini e coordinate via telefono satellitare. Da chi? Se lo sapesse, ora lo direbbe volentieri alla magistratura. Sì, perché ora si trova in un carcere italiano dove sta dipingendo un ritratto a olio di Falcone e Borsellino, arrestato dopo il suo primo viaggio. Emir, tunisino dell’isola di Kerkenna, 64 miglia da Lampedusa, invece non ricorda quanti ne ha già fatti con il suo peschereccio; di certo, ha fatto molti soldi realizzando il «sogno a portato di mano».
Anche Kabir «realizza sogni»: tra i campi coltivati del Lazio, spiega perché non sopporta il termine «trafficante», ma vuole essere chiamato «mediatore»: «Tutti vogliono venire in Italia. Io aiuto le persone... Intere famiglie contribuiscono al viaggio, spesso vendendo tutto quello che possiedono». Non rischia la vita in mare, ma va a prendere i connazionali direttamente a Fiumicino, fatti entrare con falsi permessi di lavoro stagionale. Per la complicità nella truffa, foraggia le casse di alcuni agricoltori italiani. Rivendica: «Io non faccio nulla di male, anzi faccio solo del bene, anche a voi italiani, e in più aiuto tanti onesti pachistani che vogliono venire in Europa in cerca di fortuna».
«Lo scafista», spiegano Musumeci e di Nicola, «è solo la punta dell’iceberg. A volte, lui stesso è un migrante che si ripaga il viaggio mettendo a frutto presunte doti di skipper. A volte è un piccolo criminale, altre un medio delinquente. Dietro di lui c’è un network globale che lucra sulla necessità di spostamento delle persone, spostamento che non può avvenire legalmente». Ogni anello della catena riceve un compenso, una quota. Così raccontano il funzionamento di quella che ha base in una gioielleria del bazar di Istanbul: «All’inizio non è denaro liquido. È un pezzo di carta. Il cassiere trascrive il nome di chi dovrà essere pagato su un blocchetto. È la cifra che gli spetta. Lo strappa in due parti. Una rimane a lui e l’altra va a chi fornisce la prestazione. Quando arriva il momento del pagamento, quest’ultimo va con il biglietto, lo mostra».
Una rete flessibile e fluida, che non segue il modello monolitico delle mafie italiane, ma si ristruttura velocemente: sventata una rete, se ne crea subito un’altra. Il business si costruisce sulla fiducia e sulla parola data; l’astuzia e l’adattabilità sono doti apprezzate per gli aspiranti trafficanti. E poi la creatività. Ad esempio, per passare dalla Francia all’Inghilterra nella Manica, Fahruddin e Tom hanno inventato una strategia personale per eludere i controlli. Il primo riempie dei sacchi a pelo di ghiaccio e ci infila dentro i migranti, così da renderli invisibili allo scanner termico. Tom invece racconta di aver trovato un modo infallibile: «Avvolgere i clienti con rotoli di alluminio, quelli argentati da cucina, per intenderci».
Anche il reclutamento dei migranti è una fase gestita dalle reti criminali. Pure nei più piccoli e sperduti villaggi tra Afghanistan e Pakistan, quando una persona vuole partire, sa perfettamente a chi rivolgersi. Basta spargere la voce. El Douly, egiziano, racconta: «All’inizio della mia carriera ero io a cercare chi volesse partire. Ora sono cresciuto nel mio business ed è la gente a cercarmi. Nei piccoli villaggi dell’Egitto i giovani hanno bisogno di me». Gli fa eco il collega Ohran, trafficante turco: «I clienti arrivano con i soldi, hanno in tasca 5-7000 dollari. I gestori del reclutamento ne tengono per sé 2000 a cliente. I restanti servono per pagare il capo, ma dovranno essere versati una volta che i clienti arrivano a destinazione».
Nell’Alto Egitto, El Douly ha creato una rete di agenti reclutatori: «Scovo persone andando a cercare i familiari di gente che è già arrivata in Europa. Che ha toccato con mano la realtà di questo business. Offro loro di guadagnare più soldi di quelli spesi dal fratello per andare in Italia perlopiù rimanendo con la sua famiglia qui in Egitto. Scelgo l’agente in base alla religione dominante del villaggio, cristiana o musulmana».
Ecco, dietro ogni migrante che arriva in Italia, c’è spesso un pesce grosso, un ricco imprenditore che ha intascato dai 1.000 ai 10.000 euro. Come il croato Josip Lončarić, che negli anni Novanta controllava il 90% degli ingressi illegali di cinesi in Italia, o il curdo Muammer Küçük, che dal bazar di Istanbul gestisce traffici in tutta Europa, o il missionario congolese P.M., che ha una chiesa protestante nella capitale dell’Uganda e che, dietro lauto compenso, fa avere i documenti Unhcr necessari per andare in Europa.