Il 9 maggio nel centro di Tiraspol.
Le due giovani soldatesse al checkpoint non sorridono, controllano i tre passeggeri nella macchina con targa moldava, prelevano i passaporti e, dopo circa mezz’ora di domande poco cortesi al conducente, restituiscono i documenti con il lasciapassare valido per un ingresso di poche ore. Il problema sono i passaporti italiani, ci spiega chi ci accompagna: qui noi adesso siamo considerati nemici, per la posizione assunta nella guerra in Ucraina. Dopo aver superato il posto di blocco moldavo – più che altro una formalità -, e quello russo, più impegnativo, questo è l’ultimo checkpoint, il transnistriano, il più ostico, perché rappresenta la frontiera vera e propria, il punto di divisione netta. Addio Europa, Occidente. Da qui si fa improvvisamente ingresso in un altro mondo: la repubblica separatista della Transnistria, un’enclave russa che non confina con la Russia, un angolo di Unione sovietica cristallizzato in una striscia di 200 km incastonata fra Ucraina e il resto della Moldova, dalla quale è divisa dal fiume Nistro e da cui nel 1990 ha deciso unilateralmente di staccarsi. Uno Stato che non è riconosciuto dalla comunità internazionale, neppure dalla Federazione russa, ma che di fatto esiste, con il suo passaporto, le sue istituzioni, le sue leggi, la sua bandiera.
Da qualche tempo, in conseguenza della guerra in Ucraina, la Transnistria è finita sotto i riflettori della comunità internazionale: la Moldova teme che se le truppe di Mosca dovessero espugnare Odessa, Putin punterebbe poi alla conquista di questo territorio - importante dal punto di vista strategico - in cui si parla russo e la moneta locale è il rublo (transnistriano, diverso da quello di Mosca). Dettaglio non di poco conto, nel villaggio di Cobasna viene custodito un gigantesco deposito di armi ereditato dall’Urss. Negli ultimi giorni in Transnistria ci sono state diverse esplosioni, probabili azioni provocatorie per aizzare il conflitto. Non tutti i transnistriani sono filorussi: qui vivono essenzialmente russi, moldavi e ucraini. Molti di quelli che hanno anche passaporto moldavo o ucraino ora tendono ad andarsene. La situazione è delicata e se l’accesso ai non transnistriani già prima non era una passeggiata, adesso questo Stato si è chiuso, blindato ancora di più rispetto all’esterno. Subito dopo la frontiera, superata la cittadina di Bender con la sua famosa fortezza, si raggiunge Tiraspol, la capitale, una piccola Mosca rimasta ferma all’epoca sovietica. La strada passa in mezzo a sfilze di casermoni di cemento in stile Urss. Qui vivono circa 150mila abitanti. In tutta la Transnistria intorno a mezzo milione.
Un taxi con le bandiere transnistriana e russa.
È il 9 maggio, per la Russia la grande celebrazione del Giorno della vittoria sul nazismo nel 1945, al termine della Seconda guerra mondiale. In tutte le ex repubbliche sovietiche una festa nazionale. In Moldova, a Chisinau, la presidente filoeuropeista Maia Sandu ha annullato la tradizionale parata militare e all’ultimo minuto ha disdetto tutti i suoi appuntamenti pubblici per la giornata, inclusa la conferenza stampa congiunta con il segretario generale dell’Onu Antônio Guterres arrivato in visita in Moldova.
In Transnistria oggi è il giorno dell’orgoglio patriottico. Dovunque, lungo le strade, sopra le macchine, sventolano bandiere transnistriane, russe e sovietiche. Il simbolo della falce e il martello, presente nella bandiera nazionale, campeggia in ogni angolo. All’ingresso di Tiraspol la tensione è palpabile: la presenza dei posti di blocco militari è aumentata e intimidisce. Davanti ai soldati si procede lentamente, facendo attenzione a non dare nell’occhio, a non fotografare i posti sbagliati. L’atmosfera evoca uno Stato sottoposto a rigidi controlli. Si passa accanto al Palazzo del Governo davanti al quale campeggia la statua di Lenin, poi il polo sportivo, con lo stadio della Sheriff Tiraspol, la squadra di calcio di questa città che si è qualificata – prima squadra moldava a riuscirci – in Champions league, battendo a sorpresa il Real Madrid. In centro, il clima della celebrazione trionfale, le bandiere spiegate, i canti russi che risuonano incessantemente dagli altoparlanti, appuntato sul petto dei passanti il nastro di San Giorgio a strisce arancione e nero, simbolo dell’Ordine di San Giorgio, ricomparso dopo la Seconda guerra mondiale e oggi uno dei simboli del sostegno alla Russia. A bordo di una camionetta, una band musicale passa avanti e indietro intonando canzoni e salutando con la mano i passanti. Famiglie, persone del posto passeggiano nel parco in questo pomeriggio soleggiato, si regalano una foto ricordo davanti al monumento del carro armato russo in memoria ai caduti della Seconda guerra mondiale, che oggi è ricoperto di fiori. Un bambino si mette in posa per farsi fotografare dai genitori: porta sul petto la coccarda di San Giorgio e con le dita mostra il segno V della vittoria. Questa è la cosa più inquietante, commenta il nostro accompagnatore: che i bambini qui vengano educati, cresciuti con questa mentalità. Tutti hanno paura dell’arrivo delle forze di Mosca. Ma qui i russi ci sono già. E non solo per la presenza militare stanziale di 1.500 soldati russi. Questo territorio è già Russia, non c’è bisogno di un’invasione.
Padre Piotr Kuszman davanti alla Chiesa della Santissima Trinità di Tiraspol.
A confermarlo è padre Piotr Kuszman, sacerdote dehoniano, polacco, in missione in Transnistria da vent’anni, parroco della Chiesa cattolica della Santissima Trinità di Tiraspol, una delle sei parrocchie cattoliche della Transnistria, dipendenti dalla diocesi di Chisinau. Padre Piotr ci accoglie a braccia aperte nella sua comunità, che si trova a pochi minuti di distanza in auto dal centro, non distante dalla cattedrale ortodossa. Ci porta nella cucina sotterranea trasformata in rifugio antiaereo, ci offre tè, caffè, torta, gelato. Alcune notti, dice, per sicurezza hanno dormito qui con i piccoli ospiti del centro Petruska, una casa-famiglia che accoglie fra i 30 e i 40 bambini e ragazzini dai 5 ai 16 anni.
Racconta, ma con molta attenzione. Ha paura, sa che non può esporsi troppo, soprattutto su questioni politiche e sulla guerra. La maggior parte dei suoi fedeli, dice, sono filorussi. Un altro parroco, padre Marcin Janus, nel Nord, tempo fa è stato chiamato dal Kgb, i servizi segreti, per aver fatto riferimento al conflitto in una predica. Non è facile essere pastore cattolico qui. Sorride, padre Piotr, ma non nasconde la preoccupazione. Ammette che la situazione è difficile. I suoi parrocchiani sulla carta sono circa 600, ma di fatto molti di meno, perché tanti, quelli di origine polacca, se ne sono andati, direzione Polonia. Il clima è molto teso. «Qui sanno che presto succederà qualcosa», dice. «Tutti aspettano i russi. Ma il fatto è che li aspettano non come invasori bensì come liberatori. Per i transnistriani gli aggressori sono gli ucraini». Putin, il padre della Grande Russia, il salvatore. Padre Piotr sa bene che se così sarà, i primi a dover andare via saranno i parroci cattolici, tutti stranieri, come lui.
Il nostro tempo di visita è quasi scaduto. Al cancello della chiesa padre Piotr ci abbraccia forte. Riprendiamo la strada verso la frontiera, la trafila dei checkpoint. Anche in uscita, controllo dei passaporti, qualche minuto con il fiato sospeso: se hai fatto qualche sgarro, puoi passare dei guai. E in questo territorio, una volta che sei entrato da straniero, sei una sorta di “ostaggio” delle leggi locali, che nessuno all’esterno riconosce. Al casello dei controlli tutto a posto. Riprendiamo i passaporti e via. Fuori dalla Transnistria, fuori dall’Unione sovietica. Pochi minuti e si ritorna in Occidente, in Europa.
(Foto di Giulia Cerqueti)