La questione della testimonianza del Presidente della Repubblica al processo palermitano sulla Trattativa Stato-mafia fa discutere. Avrebbe fatto discutere se la Corte d’Assise di Palermo avesse ammesso, in videoconferenza, gli imputati che avevano chiesto di partecipare come a un’udienza in aula. E ora fa discutere perché ha rigettato la richiesta. Riina e Bagarella non andranno al Quirinale neppure a distanza, ci saranno i loro avvocati. Il dibattito però non si ferma. Ci sono questioni sottili da bilanciare. Da una parte ci sono i diritti di difesa, garantiti dalla Costituzione dello Stato di diritto a tutti gli imputati indipendentemente dal curriculum criminale, dall’altra la testimonianza del Presidente della Repubblica con le sue prerogative. E, secondo la considerazione di molti, l’immagine delle istituzioni che potrebbe avere danno dall’accostamento seppure virtuale.
Abbiamo chiesto a Paolo Ferrua, professore di Procedura Penale all’università di Torino, di aiutarci a capire meglio i diritti e le questioni in gioco.
Professor Ferrua, proviamo a spiegare ai non addetti ai lavori, perché la vicenda è complicata?
«Da una parte abbiamo il diritto di difesa, fondamentale e garantito a tutti dalla Costituzione, dall’altra le prerogative del presidente della Repubblica altrettanto fondamentali. Non sono però sicuro che, nella situazione di cui parliamo, queste prerogative fossero in discussione. Posso sbagliare, ma mi pare che la presenza degli imputati, se collegati in via telematica, non rappresenti un pericolo concreto di sicurezza per il Quirinale. Certo, se potessero partecipare di persona sarebbe tutto diverso, un grosso problema, un imbarazzo terribile vedere vicini Riina, Bagarella e il Presidente, ma a distanza credo che il problema sarebbe assai ridimensionato. L’importante è che la dignità del presidente, la sua sicurezza, il fatto che rappresenta lo Stato italiano non siano messe a repentaglio. Nel momento in cui il presidente depone, ammettere la partecipazione a distanza, in via telematica, dell’imputato contro il quale la deposizione potrebbe essere usata, sarebbe utile a sottolineare la generosità e la trasparenza da parte del Presidente».
La Corte però ha deciso diversamente, su che cosa si basa la decisione?
«Il discorso si fa più complesso ma è l’unico modo di spiegarlo. Tutto si gioca su diverse fonti del diritto: Costituzione, Convenzione europea e codice di procedura penale. Nella Costituzione e nella Convenzione europea mentre è detto molto chiaro che l’imputato ha diritto di difendersi, non si parla di una deroga alla testimonianza del presidente della Repubblica. Parrebbe, perciò, che abbia il primato il diritto di difesa perché l’imputato rischia una pena. Non vedo un regime che permetta di concludere che il diritto di difesa debba essere sacrificato davanti a una prerogativa del presidente. Possiamo decidere di non ascoltare un testimone, ma nel momento in cui il giudice decide di ascoltarlo e la sua testimonianza potrebbe valere come prova contro un imputato, il diritto di difesa non può essere compresso».
Significa che il problema poteva porsi a monte, al momento di decidere di ammettere la testimonianza e di ritenerla rilevante?
«Forse sì… Ma anche lì la Costituzione non dice che non possa essere sentito il presidente, mentre il Codice di procedura penale ne prevede e ne regola espressamente la testimonianza. Gli articoli di riferimento sono due il 205 e il 502. Il primo prevede che il presidente possa testimoniare e che abbia diritto di deporre al Quirinale e che, per questo, non si possa ammettere il pubblico. Mi pare ovvio, altrimenti sarebbe il caos. Non si dice altro. Se dovessimo stare alla lettera parrebbe che il pubblico non possa presenziare, ma gli imputati sì. Per analogia però si applica l’articolo 502, in cui non si parla del presidente, ma dei testimoni che per legittimo impedimento non possono andare in aula e hanno diritto di essere sentiti a domicilio. In questo articolo si esclude il pubblico e si dice che l’imputato è rappresentato dal proprio difensore».
Ed è quello che si verifica a seguito della decisione della Corte di Palermo. Giusto?
Sì, ma il resto dell’articolo 502 dice che “il giudice, quando ne è fatta richiesta ammette l’intervento personale dell’imputato interessato”, sia chiaro ad ascoltare non a porre domande. Il codice dice: “Ammette”, non “può ammettere”».
E qui sta il problema?
«Se prendessimo alla lettera l’art. 502 dovremmo permettere a Riina e Bagarella di andare al Quirinale, senonché siamo tutti ragionevoli e applichiamo, sempre analogicamente, l’articolo 146 bis delle norme di attuazione. Se fossimo in aula Mancino che è a piede libero potrebbe presenziare, mentre per i detenuti la partecipazione avverrebbe a distanza, in videoconferenza: per i detenuti c’è una lieve attenuazione del diritto di difesa, ma è giusto così per problemi di sicurezza”».
Ma siamo al Quirinale e la Corte ha deciso diversamente. Riusciamo a far capire perché?
«Ha ritenuto che l’art. 146 bis non sia applicabile, e Riina non possa partecipare, perché l’articolo fa riferimento esplicitamente ai dibattimenti in udienza, ma il Quirinale non è un’udienza. Uno potrebbe sottilizzare, e dire dal momento che la Corte si trasferisce lì il Quirinale diventa come un’udienza. Mettiamo pure che non sia così, ma l’articolo si può sempre applicare in via analogica, voglio dire per colmare una lacuna della legge. Mi spiego meglio. E’ ragionevole dire all’imputato che per problemi di sicurezza la legge gli impone di accontentarsi della partecipazione a distanza, per via telematica. Ma se gli nego anche questa possibilità, e gli impedisco qualsiasi controllo sulla testimonianza, gli do un appiglio per appellarsi alla lesione del diritto di difesa».
La Corte ha ritenuto che per garantire il diritto di difesa bastassero i difensori, possiamo spiegare ai comuni mortali perché questa spiegazione fa discutere?
«Perché chi rischia la pena è l’imputato. Poi, intendiamoci, in questo caso, forse non ci sarà il pericolo concreto di una lesione reale perché presumibilmente quello che dirà Napolitano non sarà la prova usata per condannare gli imputati. Con ogni probabilità il presidente ribadirà quello che ha detto per lettera e cioè che non sa nulla più di quanto ha detto a proposito delle preoccupazioni di D’Ambrosio. Ma questa esclusione dell’imputato può essere un precedente pericoloso per eventuali altri processi in cui fosse impedita la partecipazione a distanza del detenuto».
E per questo si rischia la nullità del processo?
«In teoria sì, sicuramente in caso di condanna i difensori la faranno valere in Appello, in Cassazione alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Di fatto, secondo me, il rischio è piuttosto ridotto: se la testimonianza del Presidente non sarà utilizzata contro l’imputato, l’Appello, la Cassazione, la Corte Europea potrebbero dire: anche se ti fosse stato negato un diritto, quale danno ne hai avuto, visto che quella testimonianza non ha aggiunto nulla alla tua responsabilità di imputato che deriva da altre prove? Questo vale soprattutto per la Corte europea che giudica in base al pregiudizio che ha subito in concreto l’imputato. I difensori ovviamente sosterranno una tesi diversa, e cioè che comunque è stato leso il diritto di difesa; ma nella sostanza mi pare poco probabile che il processo vada in fumo per questo solo motivo. »