Alla fine è stata la Corte di Cassazione, come previsto, a mettere la parola fine sulla verità giudiziaria a proposito della cosiddetta trattativa Stato-Mafia che aveva sortito condanne in Corte s’Assise e prescrizioni e assoluzioni in Corte d’Assise d’Appello.
«Anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico politico» scrivono in 95 pagine piane i giudici della sesta sezione penale della Cassazione «l’accertamento del processo penale resta, invero, limitato ai fatti oggetto dell’imputazione e deve essere condotto nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla Costituzione e dal Codice di rito (quello di procedura penale in questo caso, ndr), prima tra tutte quella dell’oltre ogni ragionevole dubbio». È questo secondo gli ermellini a scricchiolare nella sentenza di secondo grado impugnata sia delle difese con l’intento di ottenere un’assoluzione con la formula più ampia, sia dalla procura generale che contestava invece le assoluzioni confermando la richiesta di condanna.
Con la decisione del 28 aprile 2023, di cui sono state depositate l’11 novembre le motivazioni, la Sesta sezione penale della Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte di assise di appello di Palermo nella parte in cui ha riconosciuto che negli anni 1992-1994 i vertici di “cosa nostra” cercarono di condizionare con minacce i Governi Amato, Ciampi e Berlusconi, prospettando il proseguimento della strategia stragista se non fossero intervenute modifiche nel trattamento penitenziario per i condannati per reati di mafia e altre misure in favore Cosa nostra. La sentenza, riqualificando il reato di "minaccia a un corpo politico dello Stato" - contestato a tutti gli imputati - in "tentativo" di una minaccia che non si è poi concretizzata, ha dichiarato la prescrizione nei confronti di Leoluca Bagarella e Antonino Cinà in relazione alle minacce ai danni dei Governi Ciampi e Amato, essendo trascorsi più di 22 anni dalla consumazione del tentativo. Gli ufficiali del Ros, Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno – che erano già stati assolti in Appello per mancanza di dolo – sono stati invece assolti senza rinvio «per non aver commesso il fatto» riguardo all’ipotesi di concorso nel reato tentato di minaccia a corpo politico. Per quanto riguarda la minaccia nei confronti del Governo Berlusconi, di cui erano accusati Marcello Dell’Utri e Bagarella, la Cassazione ha confermato la decisione della Corte di assise di appello di Palermo, che ha riconosciuto l’estraneità del primo e dichiarato la prescrizione per il secondo.
Non c’è dubbio secondo la Cassazione che l’interlocuzione, che la corte d’Appello ha definito “improvvida”, ci sia stata, ma scrivono i giudici della Suprema corte: «L’apertura dell’interlocuzione con i vertici di “cosa nostra” non può essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di “cosa nostra”, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato. D’altra parte, nelle condizioni del contesto descritte nella sentenza impugnata (corte d’assise d’appello ndr.), non è possibile affermare l’esistenza di un preciso rapporto di causalità tra l’azione dei pubblici ufficiali e la genesi del ricatto mafioso».
E ancora: «Anche se l’apertura di un dialogo con i vertici di “cosa nostra”, come rilevato dalla sentenza impugnata, è stata “molto più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o di agevolazione delle condotte degli autori del reato non può integrare il concorso nel reato di minaccia al Governo. Pertanto una volta escluso, in quanto non provato oltre ogni ragionevole dubbio, che gli ufficiali del Ros abbiano riferito la minaccia mafiosa ad esponenti di governo, dalla sentenza impugnata risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla né rafforzare l'altrui intento criminoso. Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a Cosa nostra è, all'evidenza, insussistente».
Nell’assolvere gli alti ufficiali, nel dichiarare prescritto il reato derubricato in appello da minaccia a tentata minaccia al corpo politico dello Stato, la Cassazione ha criticato il metodo e la forma delle due sentenze di primo e secondo grado per aver dato «di fatto preminenza a un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio» finendo «per smarrire la centralità dell’imputazione (...) profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio».
Nel ricordare che le sezioni unite della Cassazione hanno fortemente stigmatizzato le motivazioni affette da «elefantiasi», i giudici della Suprema corte non hanno nascosto un rilievo di metodo alle migliaia di pagine delle due sentenze di merito osservando una sproporzione anche quantitativa tra la ricostruzione storica preponderante e lo spazio riservato alle prove in senso stretto: «La trama di entrambe le sentenze», scrivono i giudici, «pur muovendo dal corretto rilievo che la c.d. trattativa Stato-Mafia non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è tuttavia monopolizzata dai contatti intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del ROS e quelli dell’associazione mafiosa denominata cosa nostra e dall’accertamento dello sviluppo degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo».