Contravvenendo al dogma che interdice a un giornalista l’uso della prima persona, confesso a mio rischio e pericolo che non sono interessato a sapere chi sia Elena Ferrante. Non lo sono per almeno tre motivi di cui dirò a breve. Lo affermo – altra prima persona - consapevole del grave interdetto a cui mi espongo, data l’essenziale importanza che il dibattito sul tema pare rivesta ormai su Tv e giornali, tra lettori e critici, amici colleghi e fidanzate. Il caso Ferrante appassiona e divide l’Italia, causa candidatura al premio Strega. Come una spy story, un thriller, un action movie. Repubblica lancia la provocazione con un pezzo di Saviano. Il sito Dagospia, a intervalli da torre campanaria, fa il nome della moglie dello scrittore Starnone. Altri decriptano in modo diverso.
Tutti in ogni caso girano intorno all’appassionante quesito: chi è Elena Ferrante? Chi si nasconde dietro la sigla che ha firmato capolavori come L'amore molesto, I giorni dell'abbandono e L'amica geniale, ha scalato classifiche di vendite, ha conquistato titoli sul New Yorker, Foreign Policy, Economist? Personalmente, ripeto, non mi interessa. Primo motivo. Intanto perché non mi servirebbe a conoscere meglio i veri oggetti della passione, ovvero Raffaella Cerullo ed Elena Greco, e soprattutto la Napoli che fin dagli anni Cinquanta fa da sfondo alle loro esistenze. Quella città non bagnata dal mare, per dirla alla Ortese, malinconicamente adagiata sulla propria porosa bellezza fino a scordarsi del resto. Raffaelle ed Elena bastano e avanzano per ricordare gli scorci migliori di quella città infinita, il suono di certe scalinate di notte e il rimbombo del tufo, certi palazzi di spagnoleggiante decadenza del centro storico, alcune albe in cui il profilo di Capri assomiglia in lontananza a un profilo di donna.
Cosa volete che c’entri l’autrice con tutto questo? Nulla. Perché tutto questo è frutto di un rapporto tutto personale tra chi legge e quei posti, se vi è stato o se soltanto li ha voluti immaginare. Secondo motivo. Se anche sapessi chi è Elena Ferrante rischierei di esserne deluso. Come avviene quando si finisce per conoscere tutti i tic della propria rockstar, comprese la quota di asciugamani che pretende prima di ogni concerto. O come quando si sente parlare il calciatore che ci ha innamorato con i suoi dribbling e si capisce che sarebbe meglio parlasse solo con quelli. Conoscere attraverso le vicissitudini di Margareth Martinson Williams, ex moglie di Philip Roth, tutte le manchevolezze dell’uomo e del marito (vedasi l’ultima biografia Roth scatenato, Einaudi) non aiuta ad amare di più l’autore di Pastorale americana e La macchia umana. Perché quelli sono “affari suoi”. E la sua personale incapacità di amare, il suo irrefrenabile egoismo che tutto sacrifica alla carriera, non toglie nulla alla sua capacità di descrivere l’amore. Che è tutto ciò che da lettore mi interessa.
Il terzo motivo. Insomma, il rapporto tra il lettore e un libro è una storia di coppia, non un ménage a trois. Perché l’amore non si trasmette per proprietà transitiva dal lettore al libro all’autore. E’ questo uno dei misteri della (vera) letteratura. Un buon libro piace a prescindere. A prescindere da chi lo scrive, dalla sua biografia, dai tic, le abitudini, le paure. Quelli interessano i biografi. E non hanno molto a che fare con il piacere di chi, chiudendosi il mondo di ogni giorno alle spalle, entra in un altro mondo che ricostruisce a sua misura, nel gomitolo della sua poltrona, alla luce della propria lampada da tavolo. Il mistero è che un libro, una volta scritto, cessa di essere di chi lo ha scritto e diventa altro. Anzi, diventa tante volte altra cosa dall’autore quanti sono i lettori che lo ameranno (o meno). Ognuno in modo diverso, irripetibile. Ecco perché la mia L’amica geniale non è quella scritta da Elena Ferrante. E’ la mia. Tutto il resto, francamente, non mi interessa. Ps A maggior ragione, chiunque sia Elena Ferrante, non mi interessa se vincerà il premio Strega.