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domenica 15 settembre 2024
 
Aperti i seggi, si vota sino alle 23
 

Trivelle, guida al referendum con le dieci cose da sapere

17/04/2016  Oggi tutti i cittadini sono chiamati a votare sulle concessioni per l'estrazione di gas e petrolio in mare. Il voto è stato promosso da nove regioni del Sud. Ecco un vademecum con dati, posizione degli impianti, il confronto tra le ragioni del sì e quelle del no e la posizione della Chiesa italiana.

Domenica 17 aprile si vota per il referendum popolare. Sarà possibile recarsi alle urne dalle 7 alle 23. Ecco una guida con il confronto tra le ragioni del fronte del sì e quello del no o che invita ad astenersi e disertare il voto.

Su che cosa si vota?

Gli elettori dovranno votare su una questione piuttosto tecnica. Dovranno, cioè, decidere se i permessi per estrarre idrocarburi in mare, entro 12 miglia dalla costa, cioè più o meno a 20 chilometri dalla terraferma, debbano durare fino all’esaurimento del giacimento, come avviene attualmente, oppure fino al termine della concessione rilasciata loro dallo Stato. Attualmente sono 69 le concessioni per le estrazioni di gas e petrolio, di cui 44 interessate dal referendum.

Cosa succede se vince il sì?

  

Le società petrolifere dovranno mettere fine alle loro attività di ricerca ed estrazione smantellando le piattaforme secondo la scadenza fissata dalle loro concessioni, e quindi secondo la data stabilita al momento del rilascio dell’autorizzazione alle compagnie, al di là delle condizioni del giacimento, se cioè c’è ancora da estrarre oppure no. Lo stop, quindi, non sarebbe immediato, ma arriverebbe solo alla scadenza dei contratti già attivi. La prima chiusura di una trivella entro le 12 miglia avverrebbe tra due anni, per l’ultima bisognerebbe aspettare fino al 2034, data di scadenza della concessione rilasciata a Eni ed Edison per trivellare davanti a Gela, in Sicilia.  

Cosa succede se vince il no o il referendum fallisce?

Le concessioni attualmente in essere avevano una durata di trent’anni con la possibilità di due successive proroghe, di dieci e di cinque anni che, in caso di vittoria del no, potrebbero essere concesse, prolungando così il periodo di attività delle trivellazioni. Con una modifica apportata al testo in materia dall’ultima legge di stabilità potrebbero però rimanere «per la durata di vita del giacimento». Ovviamente nel rispetto delle valutazioni di impatto ambientale che andranno in ogni caso fatte in caso di richiesta di rinnovo della concessione alle trivellazioni.

Chi ha promosso il referendum?

  

Questo è il primo referendum nella storia italiana ad essere stato ottenuto dalle Regioni. Sono stati infatti dieci consigli regionali, diventati nove dopo il ritiro dell’Abruzzo, ad aver depositato le firme necessarie per poter arrivare al voto. Molti presidenti di Regione appartengono al Partito Democratico e di fatto si oppongono alla politica energetica del loro segretario e premier, Matteo Renzi.  Il governatore della Puglia Michele Emiliano, tra i più battaglieri, si è schierato per il sì attestandosi contro la linea del Pd che invece invita all’astensione.

La mappa degli impianti in Italia
La mappa degli impianti in Italia

La questione inquinamento

Secondo un recente rapporto di Greenpeace vicino alle piattaforme in mare ci sono sostanze chimiche inquinanti e pericolose, con un forte impatto sull’ambiente e sugli esseri viventi. Secondo l’associazione ambientalista la contaminazione è “ben oltre i limiti previsti per almeno una sostanza chimica pericolosa nei tre quarti dei sedimenti marini vicini alle piattaforme”, il 76% nel 2012, il 73,5% nel 2013 e il 79% nel 2014. Ancora: i parametri ambientali sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% dei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014. Anche nelle cozze la presenza di sostanze inquinanti ha mostrato evidenti criticità. Il rapporto è basato su dati raccolti fra il 2012 e il 2014 dall’Ispra, su commissione dell’Eni, relativi a 34 piattaforme a gas gestite dalla compagnia nell’Adriatico. Nei sedimenti marini e nelle cozze che vivono vicino alle piattaforme sono state trovate, in alcuni casi, sostanze chimiche in quantità superiori ai limiti di legge. Di parere opposto il comitato “Ottimisti e Razionali” che si batte contro il referendum formata da politici o ex politici come il presidente di Assoelettrica Chicco Testa, imprenditori, e associazioni per lo sviluppo sostenibile come Amici della Terra. I punti contestati sono due: i limiti di legge presi a riferimento da Greenpeace valgono per le acque che distano un miglio dalla costa, mentre le piattaforme sono più lontane e sottostanno ad altre soglie. Secondo: nelle sue relazioni l’Ispra conclude sostenendo che non ci sono criticità per l’ecosistema marino legate alle piattaforme.

Quanto si guadagna dalle trivellazioni?

  

Secondo la società di ricerca Nomisma-Energia, la tassazione  a cui sono sottoposte in Italia le società petrolifere è pari in media al 63,9 per cento , un livello «relativamente alto» nel confronto tra i Paesi Ocse. Rispetto alle aziende di altri settori, quelle che estraggono idrocarburi pagano in più le royalties, imposte applicate sul valore di vendita del gas o del petrolio estratto. Succede quasi in tutto il mondo. In Italia le royalties per chi trivella in mare sono piuttosto basse: il 7 per cento per il gas e il 4 per il petrolio. Nel 2015 tutte le estrazioni, sia in mare che sulla terraferma, hanno prodotto un gettito da royalties pari a 352 milioni . La quota delle piattaforme entro le 12 miglia, dice il ministero dello Sviluppo, è stata di circa 38 milioni. Secondo Greenpeace, «tre piattaforme su quattro entro le 12 miglia non pagano le royalties e il 40% è fermo». I numeri arrivano dopo un'analisi dei dati del sito del ministero dello Sviluppo economico sulla produzione delle piattaforme per le trivellazioni oggetto del referendum del 17 aprile. Secondo Greenpeace «in tre casi su quattro si tratta di impianti il cui ciclo industriale è chiaramente esaurito perché non producono o lo fanno in quantità insignificanti» pari «al 73% delle piattaforme situate entro le 12 miglia marine».

A che punto siamo in Italia con le energie rinnovabili?

Nel confronto europeo, l’Italia è uno dei Paesi che ha spinto di più sullo sviluppo delle rinnovabili. Secondo il Gestore dei servizi energetici (Gse) nel 2015 le cosiddette fonti alternative hanno contribuito a soddisfare il 17,3 per cento dei consumi nazionali di energia. Il dato è in costante aumento, se si pensa che nel 2004 la quota rinnovabile era del 6,3 per cento . L’Italia ha dunque raggiunto in anticipo l’obiettivo fissato dall’Unione europea, che chiede al nostro Paese di arrivare al 2020 con il 17 per cento di energia prodotta da fonti rinnovabili. I critici lamentano però che l’obiettivo italiano è poco ambizioso, dato che altri Paesi dell’Ue puntano molto più in alto e alcuni (Svezia, Islanda, Norvegia) ricavano già più del 50 per cento dalle rinnovabili. Il secondo punto è che il governo Renzi, avendo ridotto gli incentivi per le fonti verdi, non sta spingendo sufficientemente per lo sviluppo sostenibile.

Quanto trivellano gli altri paesi europei?

  

L’Italia non è l’unico Paese a trivellare in mare. Secondo gli ultimi dati disponibili relativi al 2010 della Commissione europea, nelle acque della Ue nel 2010 c’erano quasi 900 piattaforme. La maggior parte, 486, si trovano nel Regno Unito. Segue l’Olanda con 181, l’Italia con 135, la Danimarca con 61. Staccati di gran lunga tutti gli altri, con meno di 10 impianti l’uno: Germania, Irlanda, Spagna, Grecia, Romania, Bulgaria, Polonia. Paesi a cui si potrebbero presto aggiungere, visti i piani annunciati dai rispettivi governi, anche Croazia, Malta e Cipro. Poi ci sono altri Stati del Mediterraneo che trivellano in mare, come Egitto, Libia, Algeria e Israele.

Quanti posti di lavoro sono a rischio?

Attualmente le piattaforme che rischiano di chiudere in caso di vittoria del sì al referendum sono soprattutto delll’Eni. La compagnia di Stato italiana è azionista di maggioranza di 76 impianti sui 92 totali, mentre la francese Edison ne possiede 15 e l’inglese Rockhopper una. Chi sostiene il no al referendum porta come principale argomentazione quella della perdita di posti di lavoro in tutto il settore, indotto compreso. Dati precisi sul numero di occupati nelle piattaforme offshore entro le 12 miglia, però, non lo forniscono né i sindacati né l’Assomineraria. Quest’ultima dice che in totale l’attività estrattiva in Italia dà lavoro a 10 mila persone, fra diretti e indiretti, che diventano 29 mila se si aggiungono gli addetti dell’indotto esterno al settore. Quanti sono quelli che perderebbero il posto in caso di vittoria del sì? La questione è controversa per via della gradualità delle chiusure che va in un arco di tempo dal 2018 al 2034. Secondo il vicesindaco di Ravenna, Gianantonio Mingozzi, nel distretto della città emiliana alla fine verrebbero a mancare circa tremila posti di lavoro rispetto a oggi.

Qual è la posizione della Chiesa?

  

La Conferenza episcopale italiana ha invitato a discutere nel merito del referendum attraverso approfondimenti e iniziative nelle parrocchie e nelle diocesi. «Non c'è un sì o un no da parte dei vescovi al referendum», ha spiegato il segretario della Cei Nunzio Galantino, sottolineando però che «il tema è interessante e che occorre porvi molta attenzione. L'attenzione all'aspetto sociale ha portato i vescovi a confrontarsi anche sulla questione ambientale e, in particolare, sulla tematica delle trivelle, ossia se consentire o meno agli impianti già esistenti entro la fascia costiera di continuare la coltivazione di petrolio e metano fino all'esaurimento del giacimento, anche oltre la scadenza delle concessioni, concordando circa l'importanza che essa sia dibattuta nelle comunità per favorirne una soluzione appropriata alla luce dell'Enciclica Laudato sì di Papa Francesco». La Chiesa del Centro-Sud è sicuramente più sensibile al tema della preservazione delle coste. Per il sì si è espresso chiaramente l’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, presidente della Commissione problemi sociali della Cei, il vescovo di Catanzaro Vincenzo Bertolone («la Chiesa non si impiccia ma non rimane sorda e muta»), padre Alex Zanotelli, missionario comboniano, molte diocesi di Abruzzo e Molise, la pastorale del Piemonte («le coste sono un patrimonio di tutti»). Il vescovo della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli, pur riconoscendo che la questione è complessa, ha sottolineato come la voce della Chiesa si levi per affermare un’ecologia integrale, l’arcivescovo di Trani-Barletta-Bisceglie, monsignor Giovan Battista Pichierri («Bisogna cercare altre fonti energetiche senza avventurarsi in progetti dall’esito incerto al costo della rottura di labili equilibri dell’ecosistema»), il vescovo di Cassano allo Jonio Francesco Savino («Speriamo che vengano bloccati i progetti di trivellazioni petrolifere sulle coste dello Jonio e dell’Adriatico«) e l’arcivescovo di Pescara-Penne, Tommaso Valentinetti, che in una recente intervista a Radio In-Bluche ha chiesto di «superare la logica della sola dipendenza dagli idrocarburi»

Multimedia
Trivelle, blitz di Greenpeace su una piattaforma al largo di Ravenna. La replica: demagogia
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