Quelli anzianotti come me ricordano bene “Teatro 10”, un varietà di Rai Uno andato in onda nel 1971. La sigla finale era parlata da Alberto Lupo e cantata da Mina. Lui, tra l’altro, aveva allora un ciuffo simil Donald Trump (ma non giallo) e lei un look simil Melania Trump (con più stile). Lui diceva frasi dolci e carine, lei rispondeva con il ritornello “parole, parole, parole, parole soltanto parole, parole tra noi”.
Ecco. Il deja vu è stato irresistibile, nel seguire le immagini del trionfale viaggio di Donald Trump in Arabia Saudita, prima e fondamentale tappa del tour che lo porta anche in Israele, a Bruxelles per la riunione Nato, in Italia per il G7 e a Roma per incontrare papa Francesco.
I bei discorsi di Trump: parole e fatti
Da un lato le parole di Trump: lottare contro il terrorismo, difendere gli alleati, intraprendere riforme, costruire la pace. E persino quel “non siamo qui per dirvi come dovete vivere” che è quasi un colpo di genio, se consideriamo che è stato detto a Riad, capitale di uno dei regimi più oppressivi del mondo, e dopo decenni in cui gli Usa non hanno fatto altro, almeno con i popoli a loro non troppo simpatici.
Dall’altro lato le azioni di Trump: in primo luogo una vendita di armi all’Arabia Saudita che batterà ogni record (circa 350 miliardi di dollari in dieci anni, tra i 110 che i sauditi verseranno subito e i 240 che pagheranno dopo per manutenzione e assistenza) e che servirà a re Salman per continuare a bombardare scuole e mercati nello Yemen e sostenere, come scriveva Hillary Clinton ai suoi collaboratori nelle lettere poi hackerate e pubblicate da Wikileaks, “in modo clandestino l’Isis e i movimenti del terrorismo sunnita nel mondo”.
Un bell’investimento per i sauditi, che hanno appena denunciato un passivo nel bilancio dello Stato di 53 miliardi di dollari e che, per porvi rimedio, hanno varato una serie di misure draconiane tra cui anche il taglio degli stipendi dei lavoratori pubblici, che purtroppo sono circa il 70% di tutti gli occupati del regno. Ma quando c’è la convenienza…
Il nuovo corso americano per il Medio Oriente: A new beginning è storia vecchia...
Tutto questo è stato definito da molti osservatori il “nuovo corso” americano per il Medio Oriente. C’è da ridere, perché “A new beginning”, un nuovo inizio, era anche il titolo del discorso che nel 2009 Obama pronunciò al Cairo subito dopo essere passato a Riad per incontrare re Salman, sul trono da pochi mesi, per “ascoltare i suoi preziosi consigli”, come disse allora il Presidente Usa. Il che fa venire in mente che la splendida Mina, nella solita canzone, ribatteva ad Alberto Lupo anche con un “non cambi mai, non cambi mai” pieno di femminile ironia.
E ha ragione, perché la politica americana, al di là delle parole, non cambia mai quando c’entra l’Arabia Saudita. Il primo viaggio ufficiale di Stato di Trump è cominciato a Riad, e così era stato anche per Barack Obama. Zio Donald batterà ogni record nel riempire gli arsenali sauditi, ma prima di lui il record era di Obama che nel 2010, qualche mese dopo aver ricevuto il premio Nobel per la Pace, aveva concluso proprio con i sauditi la più grande singola vendita di armi a un singolo Paese nella storia degli Usa, un colpetto da 62 miliardi di dollari.
Alla fine degli otto anni di Obama, l’Arabia Saudita avrebbe comprato armi americane per 115 miliardi di dollari, roba da far sembrare George Bush junior un dilettante, fermo alla metà della cifra. Lui, però, aveva invaso l’Iraq, non è che poteva arrivare a tutto.
Dev’essere per questo, tra l’altro, che la famosa “guerra al terrorismo” non va da nessuna parte. Dal 2000 al 2016 le vittime del terrorismo, nel mondo, sono cresciute di nove volte. Dal 2013 al 2014 il numero dei Paesi che hanno patito almeno 500 morti per atti di terrorismo è passato da 5 a 11. Dal 2014 al 2015 il numero degli attentati kamikaze è aumentato del 18%. D’altra parte che può succedere, se continuiamo a proteggere e armare i Paesi che finanziano i terroristi?
Questa perversa continuità politica ci dice anche un’altra cosa. Al di là di modi e accenti diversi, che non sempre sono solo parole (non lo fu, per esempio, l’accordo siglato da Obama nel 2015 sul nucleare iraniano, come si è visto anche dalla conferma del moderato e riformista Hassan Rouhani alla presidenza dell’Ira nei giorni scorsi), i veri policy makers americani, almeno per quanto riguarda la politica estera, non sono i Presidenti e nemmeno i loro diretti consiglieri ma altre figure: i pezzi grossi del Dipartimento di Stato, del complesso militar-industriale, dei servizi segreti. Finché i loro interessi non cambieranno, non cambierà nemmeno la politica. E il resto del mondo (il Medio Oriente con le sue guerre e i suoi terrorismi, l’Europa con i suoi profughi e la sua Ucraina) si arrangi.