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martedì 20 maggio 2025
 
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«Trump pensava che i social restassero virtuali, e invece hanno portato all'assalto del Congresso»

08/01/2021  A colloquio con Marco Lombardi, direttore del dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica e del centro di ricerca sul Terrorismo. «Il presidente ha sottovalutato il potere di Twitter e Facebook, che sono reali e non solo digitali»

Dopo l'assalto al Campidoglio a Washington nel giorno dell'Epifania da parte dei suoi sostenitori, il presidente uscente Donald Trump è stato bloccato da Facebook e Twitter. Una scelta che solleva dubbi in bilico tra l'opportunità dell'azione fatta e la legittimità di chi l'ha messa in atto. Ne parliamo con Marco Lombardi, 61 anni, direttore del dipartimento di Sociologia e di ITSTIME centro di ricerca della Cattolica sul Terrorismo. 
 
È stato giusto sospendere la comunicazione di Trump seppur per nobili motivi? 
«Questa è una bella domanda. Che si può leggere da diversi punti di vista: giusto o sbagliato? Facebook e Twitter sono aziende private e quindi hanno l'autonomia di decidere chi usa i loro servizi o meno. Per altro era già successo che bloccassero un presidente perché diceva cose fake, false. Ma un privato non può valutare se quel che dice un presidente sia o meno fake, perché mi aspetto che quest'ultimo abbia più informazioni di un privato. Il problema resta perché c'è una doppia responsabilità o irresponsabilità: sui social si incontrano coloro che usano questi strumenti per il loro interesse, quelli del “vado sui social perché voglio un like, detta anche “carezza psicologica” o perché mi interessa raccontare le mie idee; e dall'altra, Facebook e twitter a cui interessa avere informazioni dei propri utenti da rivendere su piattaforme secondarie». 
 
Quindi chi norma chi? 
«Questo è il problema: ci troviamo di fronte a una nuova area completamente non normata che viene sfruttata sia da chi ne è padrone sia da chi la utilizza senza che nessuno ne affronti gli effetti. Il che è tipico della comunicazione. Quindi aspettarsi che siano “i padroni” dei social a limitare l'uso che se ne fa non si può perché lo fanno in nome del loro interesse. Intendiamoci, Zuckerberg blocca Trump perché non è il suo scenario politico e perché in questo momento tira di più essergli contro che a favore; esattamente come Trump non usa i social perché ha una verità da dire, ma perché sono efficaci e sa di poter arrivare a una platea enorme di persone. Ecco allora che ne scaturisce una norma affidata o al buon senso di chi usa gli strumenti o di chi ne è padrone, ma in entrambi i casi risultato parziale perché fatto in nome del proprio interesse. Oggi servono più che mai accordi istituzionali, norme condivise sullo spazio digitale per riuscire a uscire da questo pasticcio». 
 
Cosa è successo negli Usa a livello comunicativo? La comunicazione social ha avuto un ruolo decisivo nell'assalto al Campidoglio 
«Ormai sappiamo che la comunicazione social viene ampiamente usata per organizzare la realtà, vale per tutti i movimenti di massa degli ultimi anni. È stato così in Italia con i No tav, i Gilet gialli in Francia, i Black Block in Germania; tutte le manifestazioni di piazza più o meno violente vengono gestite logisticamente attraverso l'uso dei social. Al Campidoglio il 6 gennaio è successo quel che volevano le organizzazioni che hanno deciso di andare sul campo; non è successo dal punto di vista di Trump. Il presidente, come tutti coloro che sono inciampati nel digitale invecchiando, guarda ai social come uno strumento che esaurisce la sua funzione nel mondo virtuale. Mentre quel che noi promuoviamo nei social ha effetto nella realtà. C'è una sovrapposizione totale ormai tra virtuale e reale, solo uno sprovveduto può pensare di lanciare invettive in Rete senza pensare che abbia effetti nella quotidianità. Rispetto agli Usa, Trump ha dimostrato di essere un "migrante digitale" cioè un uomo di una certa età che non ha confidenza con questi strumenti; ha usato da un punto di vista comunicativo una visione superata dei social pensando che i suoi messaggi restassero tra i leoni da tastiera, mentre nel frattempo una parte del movimento si stava organizzando per quel che è successo al Campidoglio». 
 

Marco Lombardi, 63 anni
Marco Lombardi, 63 anni

Siamo a tutti gli effetti nell'onlife! 
«È giunto il momento di prendersi la responsabilità che gli effetti della comunicazione ha: oggi nel mondo in cui siamo una comunicazione ha effetti nel reale e non sappiamo quali; ecco perché chiunque comunica si deve assumere la responsabilità degli effetti di ciò che comunica. Il diritto all'informazione non può essere indipendente dagli effetti che ha». 
 
Una delle ricadute più eclatanti è il virus della violenza in rete. Come mai? 
La violenza fa parte dell'umanità; tutte le pratiche che l'uomo ha messo in piedi servono a sublimare e controllare la violenza attraverso la quale l'uomo si esprime. In questi ultimi anni il nostro mondo è diventato sempre più violento, sono saltati i corpi intermedi che prevedevano la mediazione. Siamo immersi in un mondo “di fretta”, in cui arrivi immediatamente al tuo target. Oggi anche grazie al digitale, uno studente che ha qualcosa da dire ti manda una mail. Penso ai miei, io ho una classe di 300 studenti. Fino a poco tempo fa lo studente prima di mandare una mail si confrontava con un compagno nei corridoi o alla macchinetta del caffè e il più delle volte dopo averne parlato desisteva(ecco i luoghi e le istituzioni di mediazione che sono saltati). Oggi, invece, immediatamente fai riferimento al livello apicale di interlocuzione e questo permette di attivarsi in comportamenti che poi possono anche essere violenti. C'è gente che si radicalizza nel giro di due o tre mesi; che in quel breve lasso di tempo si convince che non c'è più nulla da fare se non armarsi e partire. La vita che stiamo facendo in questo tempo di pandemia è un ulteriore acceleratore di questi comportamenti. Se la classe non c'è più, se non ci sono i corridoi o la macchinetta del caffè mandi la mail al professore trovando la scorciatoia. Ecco i social e il mondo digitale sono una grande scorciatoia per raccontare il proprio malessere e la propria frustrazione. Un grande amplificatore con un violento impatto sul mondo reale». 
 
Lo diceva lei, lo sappiamo: i social sono aziende private che cercano profitto. Come si coniuga questo aspetto con la libertà di espressione? 
«In questo momento molto male. Al di là di quel che è accaduto a Trump, FB e Twitter esercitano una censura su base ideologica. La libertà di espressione deve essere tutelata a livello normativo. Tanto che queste norme fanno parte della Costituzione dei Paesi; e proprio perché è un tema così importante non può essere affidata alle pratiche di un ente privato. Nel mondo digitale in cui si esercita un certo tipo di comunicazione la libertà di espressione diventa un concetto astratto senza norme che definiscono i confini. Si affida a dei privati che però fanno i loro interessi. FB e TW fanno quel che le istituzioni non sono in grado di fare; usano questa “delega” per fare i loro interessi. Basta guardare come vengono cancellate frasi in modo assolutamente disomogeneo». 
 
Da dove si riparte? 
«Dall'impegno e dalla responsabilità individuale sugli effetti di quel che sto facendo soprattutto sulle altre persone. Ricordando ogni istante che la mia azione ha un effetto sugli altri, che ciascuno di noi è un nodo che si connette ai nodi di tutti gli altri. Ed è sempre più improbabile che io non conosca gli effetti di quel che faccio sugli altri». 
 
Trump, davvero ha sottovalutato? 
«C'è da chiedersi se l'abbia sottovalutato di proposito. L'esercito israeliano per lavorare sui social in termini di contrasto alla violenza e al terrorismo ha reclutato ragazzini tra i 16 e i 18 anni. Non credo che la stessa cosa sia stata fatta da Trump. Ha sottostimato l'effetto reale delle sue parole, una vulnerabilità enorme perché oggi le parole hanno un peso specifico immane e alla fine ne è rimasto vittima. Ha bruciato se stesso e l'America». 

Multimedia
La deriva violenta dell'America di Trump
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