Il 10 maggio sulle piazze italiane si continua a festeggiare l’Airc che per tutto il 2015 celebra 50 anni di lotta contro il cancro, e torna l’Azalea della ricerca, simbolo della battaglia contro i tumori femminili.
In occasione di una delle feste più attese in famiglia, quella dedicata a tutte le mamme, abbiamo intervistato un ricercatore dell'Airc, Angelo Di Leo, 51 anni, siciliano di Palermo, direttore del Dipartimento di Oncologia all’Ospedale di Prato, impegnato su una frontiera scientifica appassionante, dalla quale sono attesi risultati incoraggianti per la salute delle donne: il carcinoma della mammella.
I suoi studi, e quelli della sua équipe, puntano a determinare meccanismi di progressione del tumore, di resistenza ai farmaci, e a scoprire i cosiddetti “predittori di sensibilità” ai trattamenti. In altre parole, da un’analisi del sangue sarà forse possibile prevedere il rischio di recidiva del cancro al seno in donne che siano state sottoposte a intervento chirurgico dopo la diagnosi.
- Dottor Di Leo, abbiamo capito bene? Con un semplice esame del sangue, tipo quello che si fa in pochi minuti per misurare colesterolo o trigliceridi, riusciremo presto a capire se ci siamo ammalati di tumore?
«Non è proprio così. Anzi, meglio: potrà essere così, questa possibilità è il futuro. Oggi non si può fare. Stiamo studiando, forse ce la faremo nei prossimi 5-10 anni. Diciamo che il tumore va conosciuto nei suoi aspetti biologici più intimi. E allo stato attuale, quando trattiamo un paziente o una paziente affetti da cancro, purtroppo non riusciamo a conoscere in modo così approfondito la biologia del tumore. Ogni malato ha un suo proprio andamento, biologico e clinico».
- Quindi, qual è il vostro impegno?
«Quello di riuscire – con mezzi poco invasivi, dunque non con la classica biopsia che è invece altamente invasiva poiché occorre cacciare un ago all’interno del fegato o del polmone, ma con una “biopsia liquida”, cioè un prelievo di sangue – a tratteggiare meglio, attraverso una sorta di fotografia biologica, il tumore di ogni singolo paziente. Se riuscissimo a fare questo con un banale prelievo, è ovvio che la procedura potrebbe essere facilmente ripetibile nel tempo, il che permetterebbe a noi di monitorare meglio l’andamento della patologia e a trattare in maniera più mirata e personalizzata ogni singolo malato. Oltre a scoprire con largo anticipo il tumore, praticamente nella fase iniziale, in modo precocissimo, che è un formidabile vantaggio per curare in tempo una persona. Però, ripeto, non ci siamo ancora».
- Ma i ricercatori sono costantemente impegnati in questa frontiera, per trasformare una speranza in realtà...
«Sì, confermo. Per esempio, nel campo dei tumori al polmone, addirittura si sta cercando di diagnosticare nel modo più precoce possibile il cancro semplicemente catturando l’alito e, attraverso lo studio di “metaboliti”, cioè di sostanze chimiche che si trovano nell’alito, è possibile ipotizzare quale possa essere il rischio che questo soggetto, fumatore, apparentemente sano, possa già manifestare un principio di cancro al polmone».
- Se questo è il futuro, cioè scoprire attraverso il sangue la presenza di un tumore, che cosa già oggi si può fare con un semplice prelievo?
«Possiamo stabilire quale sia la predisposizione di un soggetto ad ammalarsi. Per esempio, nel caso del cancro alla mammella, con il prelievo di sangue possiamo testare le mutazioni di due geni – il Brca1 e il Brca2 – e se questi due geni dovessero essere mutati allora sappiamo con certezza che è altamente probabile, intorno all’80 per cento, che questa persona nel corso della propria vita possa sviluppare un tumore del seno o delle ovaie».
- Questa è pratica clinica di oggi?
«Assolutamente sì. Ma attenzione: non la facciamo a tappeto, su tutta la popolazione, come fosse un vaccino. Lo si fa solo su quei soggetti sani che hanno avuto nella loro famiglia un elevato numero di casi di tumore al seno o di tumore alle ovaie. Allora in queste circostanze c’è un’indicazione a eseguire questo test».
- Lei, come ricercatore dell’Airc, sta personalmente lavorando su queste frontiere scientifiche?
«Noi stiamo lavorando su un filone di ricerca che si chiama “metabolomica”, che è la stessa tecnologia dell’analisi dell’alito o del sangue, però la applichiamo non nel settore della diagnosi precoce, ma nel tentativo di capire se dopo un intervento chirurgico di tumore al seno è rimasta oppure no della malattia residua».
- Che cosa dicono le statistiche?
«Che le donne operate di cancro alla mammella nel 100% dei casi ricevono un trattamento preventivo, somministrato dopo l’intervento, che sia di tipo chemioterapico od ormonale, con l’obiettivo di distruggere eventuali cellule tumorali vaganti che potrebbero nascondersi nel corpo della paziente. Le più recenti indagini ci dicono che una paziente su quattro non avrebbe bisogno di questi trattamenti. Dunque, significa che stiamo “sovradosando” queste donne. Attraverso lo studio delle sostanze prodotte dalle cellule tumorali nel sangue – cioè l’ambito delle nostre ricerche – è possibile prevedere se, dopo un intervento chirurgico di rimozione del tumore al seno, vi siano ancora cellule tumorali residue che potrebbero in futuro portare a una recidiva del cancro. E se non ci sono più cellule tumorali, allora sono inutili le terapie adiuvanti e precauzionali».