Ekrem Imamoglu, neosindaco (se sarà confermato) di Istanbul (Reuters).
(Foto Reuters sopra: il presidente turco Recep Tayyip Erdogan)
Le elezioni amministrative del 31 marzo in Turchia hanno dato un chiaro segnale al presidente Recep Tayyip Erdogan: il Paese è insoddisfatto, deluso e vuole un cambiamento, o almeno un cambio di passo. La coalizione di Governo - formata dal partito del presidente, l'Akp, con l'Mhp dei nazionalisti, ha mantenuto la maggioranza in Parlamento (il 51%), ma l'Akp di Erdogan ha perso le metropoli, la capitale Ankara e, soprattutto, Istanbul. «In un Paese di 80 milioni di abitanti dove quasi il 70% della popolazione vive nelle grandi città, è chiaro che queste consultazioni amministrative hanno avuto una valenza e una risonanza politica nazionale. In Turchia si sa che chi governa Istanbul ha una grande influenza sul resto del Paese», commenta padre Claudio Monge, 50 anni, domenicano, responsabile del DoSt-I (Dominicans Study Istanbul), il Centro per il dialogo interreligioso e culturale dei frati domenicani nella principale città turca.
«Questo è ciò che Erdogan ha sempre fatto intendere. La sua carriera politica è nata e si è sviluppata a Istanbul, di cui lui è stato sindaco apprezzato. Perdere questa città ha un fortissimo significato politico. Istanbul non è solo una metropoli, rappresenta il Paese, è una sorta di Stato all'interno dello Stato. Il risultato elettorale potrebbe dunque rappresentare un punto di non ritorno, l'inizio di una parabola discendente per il potere di Erdogan».
Alla base della perdita di fiducia e consenso, spiega il domenicano, da molti anni residente a Istanbul, c'è la profonda crisi economica che attanaglia il Paese, l'inflazione drammatica che ha portato il costo della vita a livelli altissimi, mentre i salari medi della gente non sono stati toccati. «Sempre più persone faticano ad arrivare alla fine del mese, mentre i pochi ricchi diventano sempre più ricchi. La classe media, la nuova borghesia anatolica che Erdogan, nei primi anni di ottimo Governo dell'Akp, aveva contribuito a far nascere, si sta sgretolando e, in parte, sta prendendo le distanze da lui.
Molta gente semplice è delusa nelle sue aspettative: attendeva soluzioni immediate dal Presidente plenipotenziario».
Il Consiglio superiore elettorale sta attuando il riconteggio dei voti: i risultati elettorali, spiega padre Monge, devono ancora essere ratificati e ufficializzati. Ma se questo avverrà, il nuovo sindaco di Istanbul sarà il candidato dell'opposizione, Ekrem Imamoglu, 49 anni, esponente del Chp, il Partito popolare repubblicano, erede del kemalismo, di ispirazione laica. «A rafforzare questo candidato è stata anche la convergenza dei voti dell'elettoralto filo-curdo
il cui partito, l’Hdp, non si è presentato né ad Ankara né ad Istanbul, spiega ancora padre Monge. «Va sottolineato che la laicità in Turchia ha una valenza diversa rispetto a quella, ad esempio, della Francia o di altri Paesi occidentali. Il fatto che il Chp sia un partito laico non vuol dire
che sia per la totale separazione tra religione e Stato né tantomeno che sia contro la religione. Imamoglu è un musulmano praticante, ed è stato votato anche dalla popolazione devota. E' però un volto nuovo, senza una lunga storia politica alle spalle,
rafforzato da 5 anni di ottima amministrazione in un distretto di Istanbul, e dalla capacità di essere vicino alla gente. Diventare sindaco della principale città del Paese
fa di lui, in prospettiva, l’alternativa più credibile all’attuale Presidente turco. Ha conquistato i delusi, gli insoddisfatti con un programma di cambiamenti e di rinascita di una metropoli che, di fatto, in questi anni è cresciuta in modo incontrollato diventando una sorta di mostro. Imamoglu promette di rendere più vivibile una città nella quale chi lavora spende anche 3 ore quotidiane nei mezzi di trasporto!».
Alla vigilia delle elezioni, per mantenere alto il consenso, Erdogan ha adottato il linguaggio dei nazionalisti di estrema destra,
sposando un discorso polarizzante, riprendendo classici temi elettorali come quello di riportare Santa Sofia - antica basilica cristiana, poi trasformata in moschea dagli ottomani - dallo status di museo a quello di moschea.
Un annuncio propagandistico sull’onda emozionale successiva ai gravi attentati alle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda. «La lotta per la riappropriazione dei luoghi di culto è simbolica, non di necessità.
Né il Patriarcato greco-ortodosso né la comunità islamica hanno davvero bisogno di quello spazio di culto.
Lo stesso Presidente aveva in un primo momento ricordato ai suoi sostenitori di aver da poco inaugurato, nella parte asiatica di Istanbul, una nuova, gigantesca moschea molto più grande di Santa Sofia».
In definitiva, sarebbe improprio parlare di sconfitta di Erdogan, tanto più in un quadriennio che non prevede altri scrutini elettorali. «Non siamo di fronte a una rivoluzione, ma a un campanello d'allarme sintomo di un malessere. Vista la frammentazione dell’opposizione politica al partito di governo, i veri cambiamenti potrebbero richiedere ancora molti anni». E un'ultima considerazione: «
Questo turno elettorale, ci ha rimostrato il volto di una società turca vivace, non succube in modo acritico degli slogan elettorali e che mantiene vivo uno spazio di dialettica politica. Nonostente le difficoltà degli ultimi anni, la Turchia resta un Paese dinamico, umanamente ricchissimo, con risorse di democraticità straordinarie».