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mercoledì 30 aprile 2025
 
 

Turchia, ancora Erdogan ma...

11/06/2011  Il premier Erdogan chiedeva la maggioranza assoluta per riscrivere la Costituzione. I risultati di 8 anni di Governo, l'opposizione, la protesta dei giovani.

da Istanbul

Alla vigilia delle elezioni del 12 giugno in Turchia, nessuno ha dubbi su chi sarà il vincitore: dopo otto anni di governo islamico moderato, tutti i sondaggi dicono che il primo ministro Recep Tayyip Erdogan sarà chiamato per la terza volta consecutiva a guidare l’esecutivo. Ma quello che potrebbe sembrare un appuntamento scontato e privo d’interesse è invece pieno di interrogativi e attese.

     La posta in gioco delle elezioni, più che la maggioranza parlamentare, è infatti la scrittura di una nuova Costituzione per il paese. Un obiettivo che Erdogan e il suo partito islamico per lo sviluppo e il progresso (Akp) perseguono tenacemente da tempo. Per riuscire a raggiungerlo, però, non hanno semplicemente bisogno di vincere le elezioni: ma di stravincerle. Per approvare una riforma costituzionale da solo, Erdogan dovrebbe riuscire a conquistare i due terzi dei seggi parlamentari (367 su 550). Alle scorse elezioni il suo partito ne conquistò 334. Una maggioranza che gli consentì di emendare la Costituzione, ma lo obbligò a sottoporre le modifiche a un referendum popolare.

     Il desiderio più ambizioso di Erdogan, questa volta, è superare la soglia della scorsa tornata elettorale e aprirsi la strada verso una solitaria riscrittura della legge fondamentale. Ce la farà? Alcune rilevazioni dicono di no, altre non lo escludono. Vedremo. Intanto, però, sulla scena politica turca si è affacciato Kemal Kilicdaroglu, il nuovo leader del partito repubblicano del popolo (Chp), fondato dal padre della patria Kemal Ataturk. Nei suoi pochi mesi alla guida della formazione repubblicana, Kilicdaroglu è riuscito a far entrare una ventata di aria fresca in un gruppo rigido e ideologico. E i sondaggi lo danno in ascesa intorno al 30%. Il partito nazionalista (Mhp), invece, dovrebbe riuscire a superare l’altissima soglia di sbarramento del 10% ed entrare in parlamento. Mentre il partito filo curdo (Bdp) ha preferito non rischiare di rimanere escluso dalla rappresentanza, e ha inserito i suoi candidati nelle liste indipendenti.

Nicola Mirenzi

da Istanbul

La politica estera è stata il fiore all’occhiello della Turchia targata Akp. Con un’economia che cresce a più dell’8%, un ruolo sempre più importante nell’area mediorientale e un prestigio internazionale ormai riconosciuto da tutti i player mondiali, Ankara è destinata a essere uno dei paesi chiave del futuro prossimo.

     Il merito di questo successo è in parte del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, ma soprattutto del suo ministro degli esteri, Ahmet Davutoglu: il visionario stratega che ha elaborato e messo in pratica la politica degli «zero problemi con i vicini», da alcuni soprannominata “neo-ottomanesimo”. Negli anni di governo dell’Akp, Ankara è riuscita a costruire buone relazioni con la Russia, ha raggiunto la normalizzazione dei rapporti con la Grecia, si è impegnata molto nella stabilizzazione della regione mediorientale.

     Le rivolte arabe, però, hanno colto la Turchia di sorpresa. E quello che sembrava un cammino chiaro e sicuro verso la pacificazione dell’area limitrofa ha cominciato a mostrare le sue prime zone d’ombra. L’instabilità politica che regna al momento in Siria, la guerra in corso in Libia, il fermento che si respira nei Paesi della regione, mette in seria difficoltà i disegni egemonici di Ankara, come i suoi interessi commerciali. 

     Inoltre la Turchia, negli ultimi anni di governo Erdogan,  ha trascurato il suo rapporto con l’Europa. Il negoziato per l’adesione all’UE è fermo da tempo, anche per i veti di Cipro e l’ostilità di Paesi come la Francia e la Germania. Ma il processo di avvicinamento all’Europa è stato un motore di grande trasformazioni per la Turchia, dal punto di vista dei diritti umani, della libertà, della democrazia. Un processo riformatore che ha dato linfa ed entusiasmo al Governo che l’ha promosso, quello dell’Akp,  ma che ora attraversa un momento di stallo. Dal quale però il nuovo governo Erdogan forse dovrebbe ripartire, per rilanciare un partito che ha perso per strada il suo iniziale piglio innovatore. 

Nicola Mirenzi

da Istanbul

Tra tutti i problemi con la libertà che ha il sistema turco, ce n’è uno che  sta facendo molto discutere in questi giorni: Internet. Ormai a ridosso della giornata elettorale un gruppo di hacker anarchici che si definiscono “Anonimi” ha minacciato un’incursione sui siti del Governo proprio nel giorno del voto, per protestare contro una normativa che entrerà in vigore ad agosto e imporrà un nuovo sistema di filtraggio alla navigazione online.

     Secondo l’Autorità per le Comunicazioni e le Tecnologie turca, i filtri serviranno proteggere le famiglie da materiali inappropriati (per esempio contenuti pornografici), impostando un sistema di alt preventivo. Per gli attivisti della rete, invece, si tratta di un sistema che consentirà di raccogliere dati personali e violare la privacy, trasformando la censura in uno strumento di controllo ancora più sottile. Già a metà maggio migliaia di persone sono scese in piazza a Istanbul per protestare contro la nuova disciplina approvata dal Governo. Ma anche contro una politica della rete che viene giudicata restrittiva e liberticida.

     Durante l’ultimo mandato del premier Recep Tayyip Erdogan, la Turchia ha oscurato decine di blog e siti web. Tra cui il popolarissimo YouTube, chiuso nel 2008 e tornato accessibile solo da alcuni mesi. La protesta dalla piazza ora si è spostata però nel suo luogo naturale: la rete. In un video postato proprio su YouTube, i contestatori informatici spiegano che la politica governativa di restrizione del web è diventata oramai intollerabile. Per questo – dicono – è ora di schierarsi «dalla parte dei cittadini turchi» contro tutti i bavagli. «Gli atti di censura del Governo sono ingiustificabili – spiegano nella clip – Internet è una piattaforma di libertà, un luogo nel quale ciascuno e tutti insieme possono incontrarsi, discutere, condividere informazioni senza dover temere l’interferenza del Governo».   

Nicola Mirenzi

    

     «La prospettiva europea della Turchia sta tramontando. Ma in un mondo globalizzato l’Ue senza Ankara sarebbe monca». Mentre i turchi votano, Carlo Marsili, ambasciatore ad Ankara dal 2004 al 2010, riflette sul ruolo della Turchia nel Mediterraneo. Senior advisor dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), Marsili ha pubblicato La Turchia bussa alla porta. Viaggio nel Paese sospeso tra Europa e Asia (Egea), che ha presentato di recente alla Conferenza “La Turchia nel Mediterraneo in crisi” promossa dall’Ispi a Milano.


– È la Turchia che bussa alla porta dell’Europa, o piuttosto il contrario?


     «La Turchia guarda all’Europa da almeno 40 anni, anche se i negoziati veri e propri sono iniziati solo di recente. Però è vero che anche l’Europa bussa alla porta della Turchia, almeno da quando si è accorta che il Paese è diventato una grande potenza, con una crescita del 6-7% l’anno da sette anni, che alla fine del 2010 si è attestata addirittura intorno al 9%».


– Lei sottolinea che l’ingresso di Ankara nell’Unione europea sarebbe vantaggiosa soprattutto per l’Italia. Perché?


      «L’Ue è sbilanciata sull’asse franco-tedesco che ha i suoi maggiori interessi economici verso il Nord ed Est Europa. All’Italia interessa rafforzare l’asse mediterraneo: la Turchia contribuirebbe a riportare al centro dell’Europa il Mare nostrum, anziché continuare a considerarlo come un lago periferico. Inoltre, l’Italia è il quarto partner commerciale di Ankara, dopo Germania, Russia e Cina. I turchi, poi, sono molto affezionati all’Italia: amano dire “italiani e turchi,una faccia una razza”».


– Quali sono i problemi sociali ed economici che la Turchia deve ancora risolvere?


     «La Turchia in questi anni ha compiuto importanti riforme. Ma restano ancora dei problemi. In primis, la parità uomo-donna, fissata sulla carta: nella pratica esiste ancora una profonda disuguaglianza, soprattutto nelle regioni orientali, frutto di una mentalità che non è facile modificare; la libertà di stampa che presenta dei limiti: al momento registriamo un alto numero di giornalisti turchi che si trovano in prigione; l’islamizzazione strisciante e la spaccatura fra la Turchia laica, kemalista e quella conservatrice, che attribuisce un’importanza molto rilevante alla religione. E poi il forte divario socioeconomico: la società turca è spaccata geograficamente in due,  tra la regione egea e quella interna, orientale, anche se in questi anni proprio a Est è nata una vasta classe media benestante di imprenditori, le cosiddette Tigri dell’Anatolia».

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- Alle elezioni il premier Recep Tayyip Erdogan vincerà senza problemi?

    

«Tutti i sondaggi lo danno come grande favorito. Dobbiamo però ricordare che in Turchia la legge stabilisce uno sbarramento al 10% dei voti per i partiti: sotto questa soglia non si entra in Parlamento. Quindi anche con poco più del 40% dei consensi l’Akp, il partito conservatore islamico moderato di Erdogan,  potrebbe conseguire la maggioranza assoluta con facilità, per la terza volta consecutiva».

Giulia Cerqueti

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