(Foto Reuters)
Un Paese nettamente spaccato in due: così esce la Turchia dal referendum costituzione del 16 aprile che ha aperto la strada al "super-presidenzialismo". I "sì" alle riforme vincono, ma per una manciata di voti, con poco più del 51% delle preferenze rispetto ai "no" e l'ombra dei brogli, denunciata dalle opposizioni che contestano con forza il risultato e parlano di ben 2,5 milioni di voti problematici. Il referendum ha registrato un'affluenza altissima: 84% fra gli elettori in patria e 45% (un record) fra i turchi emigrati all'estero, sui quali ha fatto molta presa la massiccia campagna nazionalista anti-Unione europea. Ma va ricordato che il referendum non prevedeva un quorum. A regalare la vittoria al presidente Recep Tayyip Erdogan è stata la Turchia islamica e conservatrice, mentre le metropoli, a partire da Istanbul (la città di cui Erdogan in passato è stato sindaco), si sono schierate per il "no".
Il presidente ha parlato di «decisione storica»: si tratta in effetti di un cambiamento radicale, epocale per la Turchia repubblicana, che modifica il suo assetto istituzionale. Il pacchetto di riforme oggetto del referendum include diciotto emendamenti che trasformano il Paese da repubblica parlamentare a presidenziale. Scompare la figura del primo ministro e il presidente assume il ruolo di capo dell'Esecutivo, con il potere di nominare e licenziare i ministri. Tra i nuovi poteri del capo di Stato: la facoltà di emettere decreti presidenziali sulla maggior parte delle materie senza dover passare attraverso il Parlamento; la nomina dei vertici dell'esercito, dei servizi segreti, di alcuni vertici del potere giudiziario, nonché dei dirigenti della pubblica amministrazione e dei rettori delle università. Inoltra, il presidente Erdogan potrà essere rieletto fino al 2029 (cioè per due mandati consecutivi di cinque anni, a partire dal 2019) e in certe condizioni addirittura fino al 2034.
Pià che a una repubblica presidenziale, la riforma costituzionale turca apre di fatto a un forte accentramento dei poteri nelle mani del leader, il presidente, che risulta una figura praticamente "blindata", inattaccabile. Il rischio evidente è la deriva autoritaria, il pericoloso scivolamento verso un regime dittatoriale, con pesanti ripercussioni sulle libertà individuali. Ma i turchi hanno scelto la leadership dell'uomo forte come argine all'instabilità e all'insicurezza. Dopo il tentativo di colpo di Stato del 15 luglio 2016 la Turchia vive già in un pesante stato di emergenza. A incidere sulla scelta degli elettori è stata la preoccupazione per la minaccia terroristica interna, la paura per uno stato di incertezza che potrebbe compromettere la crescita economica. L'idea della "leadership forte dell'uomo solo" si è imposta alle urne: il sultano Erdogan ha vinto. La riforma costituzionale apre certamente a una fase complicata per i rapporti della Turchia con l'Unione europea e segna in questo senso un passo indietro: il presidente ha già annunciato la possibilità di sottoporre a referendum popolare la reintroduzione della pena di morte, la cui abolizione era stata una delle condizioni per i negoziati di adesione all'Ue. La Turchia di Erdogan si allontana sempre di più dall'Europa.