Non
si piegò a nessun potere. E neppure alla sua stessa malattia, il
«drago che si è insediato nel mio ventre», come chiamava il tumore
che l'aveva colpito e con il quale ingaggiò una battaglia, quasi un
corpo a corpo sfiancante, fino all'ultimo. Frate
servita, poeta, predicatore, scrittore. David Maria Turoldo fu tutto
questo e molto altro. Quando morì, il 6 febbraio 1992, fu davvero
imponente la processione spontanea del popolo di Milano, che andò
alla chiesa di San Carlo al Corso, dove era arrivato, giovane, dal
Friuli, per dargli l'ultimo saluto. La sua voce libera, scomoda,
meditativa, a volte disturbante accompagna i lettori di Famiglia
Cristiana [clicca qui per conoscere l'iniziativa] nel cammino di Quaresima.
Ermes Ronchi, frate dell'Ordine
dei Servi di Maria, predicatore, che ogni settimana su Raiuno
commenta il Vangelo nel programma “A sua immagine”, conosceva
molto bene padre David. «Di
lui», dice, «mi colpiva, da un lato, la sua forza contadina,
l'imponenza fisica, l’irruenza come di un antico guerriero, di un
vichingo. Dall’altro, i suoi occhi sempre chiari e infantili.
Affascinava quella voce profonda e vibrante, da cattedrale nel
deserto, e il sorriso invincibile degli occhi azzurri».
Chi
era padre David?
«Semplicemente
un frate. Servo di Santa Maria, quest’antico ordine religioso nato
a Firenze nel XIII secolo. Lui aveva l’umile fierezza di
dichiararsi frate. E poi era un poeta. Carlo Bo diceva questo:
“Davide ha ricevuto due doni da Dio, la fede e la poesia. Ma
dandogli la fede, Dio gli ha imposto di cantarla ogni giorno”. Di
lui non restano testi dottrinali o dogmatici ma la poesia viva ed
efficace che parla a tutti, credenti e increduli».
Perché?
«Perché,
per dire Dio, percorre la via della bellezza e quella della passione.
E Davide era un passionale. In una poesia scrisse: “Un solo verso
può fare più grande l’universo”. Ricordava quel che dice il
salmo 48: “Sulla cetra vi spiego l’enigma”. Il mistero del
vivere lo spiego con la poesia e la musica. Per lui poetare era una
salvezza. Poesia è rifare il mondo dopo il discorso devastante della
violenza. E poi era un profeta che ci ha aiutato a non sbagliarci su
Dio».
Padre Ermes Ronchi è parroco di San Carlo al Corso a Milano
In
che senso?
«In
ogni incontro con lui si faceva esperienza dello stupore, quella
capacità – che noi dobbiamo assolutamente salvare – di
incantarci ogni volta che incontriamo persone capaci di trasmettere
la sapienza del vivere, parole che toccano il centro della vita
perché sono nate dal silenzio, dal dolore, dalla vicinanza al roveto
ardente».
Per
Turoldo Dio e la sua bontà come si conciliavano con la
sofferenza e il dolore?
«Non
c’è una conciliazione. La cattedra del dolore è stato il suo
magistero più alto. Lui diceva sempre questo: “Io non ho mai
pregato Dio di guarirmi, perché dovrebbe guarire me e non una madre
giovane, malata di cancro e con due figli? Io ho solo chiesto a Dio
la forza per attraversare la valle oscura”. Padre David non
imputava a Dio il male, esso non è una punizione del peccato né una
pedagogia per un’ascesi del vivere. Dio non può e non deve
intervenire in queste cose perché altrimenti finisce l’autonomia
del creato e la libertà dell'uomo. Di fronte al male aveva un
atteggiamento nobile: non colpevolizzava Dio, pur interrogandosi
continuamente come fa Giobbe. Né ebbe mai l’atteggiamento di chi
ha fatto diventare il male la roccia dell’ateismo. Oggi il dolore e
la sofferenza sono le più grandi contestazioni che si muovono
all’esistenza di Dio. Dio e male convivono ma l’ultima parola,
come disse poco prima di morire David, è che la vita non finisce
mai».
“Fede
vera è al venerdì santo / quando Tu non c’eri lassù!”, ha
scritto nella poesia Pasqua. Che significa? Anche il credente patisce
il silenzio di Dio?
«Certo,
come lo patiscono i profeti. Elia vorrebbe farsi morire sotto il
ginepro quando Dio lo sveglia con un tocco di un angelo. Però la
fede del profeta è diversa: egli ama la parola di Dio più ancora
del suo realizzarsi, Abramo ha fede nella promessa di Dio più ancora
che nell’attuazione della promessa stessa. Troppo facile credere a
Pasqua, quando tutto è luminoso e invita alla speranza. Il Venerdì
Santo invece io mi fido di Dio. Ci sono tre gradini nella scala della
fede, il primo passo è “ho bisogno”, il secondo è “io mi fido
di te”, il terzo “io mi affido” anche nel giorno del silenzio,
anche quando tu non mi parli. “Nelle tue mani affido il mio
spirito”, dice Gesù prima di morire sulla Croce. Davide diceva di
sé di essere un maniaco di Dio, di combattere ogni giorno una
“teomachia”, una lotta con Dio affinché si rivelasse. Questa lotta
però non è assenza di parole ma un grembo di parole pronte sempre a
nascere, a sbocciare. Un silenzio sempre gravido».
In
una delle sue ultime interviste, padre Turoldo disse che il “dramma
della malattia, della sofferenza e della morte è anche il dramma di
Dio”. In che senso?
«Dio
non risolve e non deve risolvere il problema del dolore e del male ma
si contamina con l’uomo. Io so che Lui si china su di me, sul mio
dolore ma non può agire come un chirurgo. Dio prova dolore per il
dolore dell’uomo, lo dimostra Gesù nel Vangelo. Come scrive Ungaretti, che
ebbe grande empatia con Turoldo, “fa piaga nel cuore di Dio la
somma del dolore del mondo”».
Cosa
significa quindi vivere il cammino di Quaresima in compagnia di una
voce come quella di padre Turoldo? Qual era il fuoco del suo
messaggio?
«Libertà
e fedeltà. Davide era un uomo libero nei confronti delle
istituzioni, compresa quella ecclesiastica, e fedele all’essenziale.
Era infedele alla regola, alla lettera per essere fedele allo
Spirito. Come dice Paolo nella Lettera ai Romani: “Casa di Dio
siete voi se conservate libertà e speranza”. E lui per me, per tanti è e continua ad essere casa di Dio. In un capitolo provinciale a cavallo del '68 disse:
“Se voi mi buttate fuori dalla porta io rientrerò nell’ordine e
nella Chiesa dalla finestra”. Era libero ma cocciuto nella sua fedeltà
alla Chiesa».