Da quel tetto di cristallo, con ogni evidenza, Giorgia Meloni, nel suo discorso di insediamento come presidente del Consiglio, in quanto prima donna a ricoprire la carica non poteva prescindere. Il tema era nell’aria, s’era già fatto sentire nella scelta di definirsi “IL presidente del Consiglio Giorgia Meloni” nei documenti istituzionali. Scelta che la grammatica non censura, non c’è regola che dica che sia un errore non dire “La presidente”, per quanto la lingua stia andando progressivamente verso le declinazioni al femminile di cariche e professioni, tradizionalmente ma nel tempo sempre meno appannaggio dei maschi.
C’è chi a destra e a sinistra ne fa una questione identitaria, molto semplificando si potrebbe dire che linea femminista preme per la femminilizzazione scelta e rivendicata e la linea conservatrice per l’accostamento nome femminile carica-maschile, a sottolineare la funzione, altrettanto rivendicata. È probabile che, a giudicare dalle scelte compiute nel discorso, stiamo in questo campo, ovviamente sulla linea conservatrice: Meloni ripercorrendo “la scala”, per usare metafora sua, che l’ha portata a rompere il tetto di cristallo; declina al maschile le cariche precedentemente ricoperte: “deputato” e “ministro” della gioventù. Se quando deve definire la destra parla di «comunità di uomini e di donne», è a “colleghi” e non a “colleghe e colleghi” che si rivolge in aula. In quel consesso istituzionale la scelta è precisa.
Resta il fatto che, al di là delle posizioni identitarie di segno opposto che ci sono e si rivendicano – entrambe legittimamente –, come tutti i linguisti interpellati ricordano, nelle lingue sovrano è l’uso e in fatto di professioni l’uso è ancora oscillante nella pratica quotidiana. Ministro si alterna a ministra, dopo 50 anni di donne in magistratura e un millennio di magistrati maschi sono le stesse giudici e Pm a non generalizzare per sé l’uso del femminile “magistrata”, segno che la lingua non ha ancora del tutto metabolizzato i cambiamenti della società, e può capitare che anche le più convinte sostenitrici dei femminili ricadano nel maschile quando nel parlare si distraggono, perché secoli di abitudine son duri a morire e perché la questione fuori dagli estremi con orgoglio rivendicati è più complessa e sfumata di come si pretende nel dipingerla in forzate campiture piatte di bianco e di nero. Tra l’altro, il più delle volte, come ha ricordato Manlio Cortelazzo, in una articolata disamina sul tema per conto della Crusca, la lingua segue i cambiamenti sociali, più che spingerli o precederli. Pretendere di imporre di imperio scelte linguistiche, anche senza scomodare l’assai poco fortunato coccotello di mussoliniana memoria, è notoriamente perdente lungo il corso della storia. Dunque legittima la scelta di Giorgia Meloni di definirsi il presidente come quella di chiunque altro di scegliere di chiamarla la presidente, scelte entrambe sorrette dalla grammatica e dall’uso, nessuna delle due passibile di imposizioni.
Ma non di sola lingua è fatta la questione femminile di questo insediamento, c’è anche un ampio Pantheon di donne pioniere cui Giorgia Meloni ha ancorato la sua scalata: multipartizan lo diremmo forzando un poco le parole. 16 donne che prima di lei hanno abbattuto stereotipi di genere ricoprendo ruoli avvertiti fin lì come maschili. Se Nilde Iotti ed Elisabetta Casellati, comunista la prima, berlusconiana la seconda, rispettivamente prima presidente della Camera e del Senato son quasi ovvie nella loro meccanica par condicio, il resto del parterre, agli occhi di chi lo cita accomunato dall’aver «osato, per impeto, per ragione, per amore» è quanto di più culturalmente variegato si possa immaginare: si va da Cristina Trivulzio di Belgioioso nobildonna, patriota e protagonista del Risorgimento e della lotta per l'Unità d'Italia a Rosalie Montmasson, «testarda al punto da partire con i Mille che fecero l'Italia». Per poi finire a ruota di Alfonsina Strada, prima donna al Giro, con gli uomini ovviamente. Dopo di loro: Maria Montessori, tra le prime laureate in medicina in Italia, pioniera della psichiatria, e autrice del metodo pedagogico che ha fatto scuola nel mondo e Grazia Deledda, prima italiana a ricevere il Nobel, per la letteratura «che con il loro esempio spalancarono i cancelli dell'istruzione alle bambine di tutto il Paese». Tina Anselmi, partigiana, è la prima cui viene affidato un ministero, quando ancora nessuno si sarebbe sognato di chiamarla “ministra”. Rita Levi Montalcini, ebrea cacciata dall’Accademia con le leggi razziali, è l’unica ad aver avuto un Nobel in ambito scientifico, nella Medicina, per le sue ricerche sulle cellule neuronali. Oriana Fallaci, partigiana, poi prima inviata italiana su un fronte di guerra, infine diventata icona della destra per le posizioni assunte nel libro La rabbia e l’orgoglio. Infine Fabiola Giannotti, prima donna chiamata a dirigere il Cern di Ginevra; Marta Cartabia, la prima a presiedere la Consulta; Samantha Cristoforetti, la prima donna europea a dirigere la stazione spaziale internazionale. A questo elenco di inequivocabili “prime”, vengono unite Ilaria Alpi, Mariagrazia Cutuli, giornaliste come la Fallaci, che sui fronti di guerra non sono arrivate prime ma sono cadute: in Somalia e in Afghanistan e Chiara Corbella Petrillo, una mamma, per cui è in corso una causa di beatificazione, che ha rinviato le cure per non interrompere la gravidanza: giovani vite sacrificate per il dovere e per la famiglia.
A colpire nella citazione è un dettaglio: la scelta di nominare tutte queste donne pioniere solo col nome di battesimo, cosa che non avviene per nessuno degli uomini a vario titolo citati nel discorso. È la stessa scelta che il giorno dopo i titoli dei giornali dedicati a Maria Sole Ferrieri Caputi, prima donna designata ad arbitrare i maschi in Serie A, ha fatto storcere il naso ad alcuni che hanno notato che nessuno mai avrebbe chiamato in un titolo Collina soltanto Pierluigi, che anche Ferrieri Caputi aveva diritto al suo cognome, anche se obiettivamente è un’impresa farlo stare, lungo com’è, nei titoli dei giornali. Condivisibile o meno, qualcuno eccepirà.
L’intento evidente nella scelta di citare chi l'ha preceduta nel corso della storia è sottolineare la consapevolezza di essere chiamata, con il fatto stesso di essere donna, a scriverne un pezzo, e nella scelta dei nomi si nota l'intento studiato di mettere da parte il clima da comizio in cui si cerca il consenso della propria parte, per ancorarsi a un profilo istituzionale che non susciti troppe diffidenze: difficile immaginare però che questo lungo elenco, fatto di riferimenti culturali tanto diversi, per quanto innegabili nei loro primati, possa, nella sua disomogeneità, rappresentare un denominatore comune più profondo di quel tetto di cristallo sfondato citato all’inizio. Quali siano i riferimenti culturali reali lo si scoprirà, vivendo e governando giorno per giorno, quando verrà il tempo delle scelte.
Una si intuisce tra le righe in un particolare rapporto femminili/maschili di questo discorso: la parola Stato compare solo nella sua accezione burocratica, la parola Paese soltanto due volte, una delle quali nel calembour “non è un Paese per giovani”, quando si tratta di esprimere appartenenza si sceglie inequivocabilmente per 13 volte la parola Nazione, dei tre sinonimi non solo l’unico femminile, il che è forse un caso, ma il più connotato in senso identitario, e questo certo un caso non è ma una scelta. Un programma.