Il presidente Obama riunito con il suo staff
Chi vince, prende tutto. E’ lo spoils system, dove le “spoglie” sono quelle dell’avversario politico. Cesare Previti, che prima di essere condannato per corruzione è stato anche ministro della Difesa, ha scolpito nel marmo del dialetto trasteverino la pratica tutta anglosassone traducendola nel 1994 con un: “Non faremo prigionieri”. Espressione storica e riassuntiva di un certo modo di essere della Seconda Repubblica.
Negli Stati Uniti, dov’è nato nel 1829, lo spoils system ha significato rotazione della cariche dall’amministrazione dello Stato. Cambia il presidente, muta con lui l’organigramma degli alti burocrati. Noi italiani, a cui l’americano piace per storia e bellica ammirazione, abbiamo pensato che fosse cosa buona, da importare. Senza accorgerci che Oltreoceano, nel frattempo, si erano fatti venire molti dubbi. Già dal lontano 1883, a dire il vero. Gli scandali generati dalla presidenza Grant (1868-1877) avevano indotto a slegare le nomine dal politico di turno e legarle a criteri di merito, cosa a cui ha provveduto il Civil Service Act del 1883.
A restringere ulteriormente il campo delle spoglie, è arrivato nel XIX secolo il Civil Reform Act del presidente Carter (anno 1978), non a caso un pacifista vero, che ha introdotto i tre gradi apicali di “burocrazia di Stato”, prevedendo solo per questi contratti a tempo determinato e nomina politica. Fino a quando – e siamo già in era Clinton – si sono spuntate le armi del “vincitore”, riducendo le agenzie federali a cui applicare la cerimonia della spoliazione. Il tutto, insomma, solo per dire che il modello americano, quello che dice che il burocrate di Stato è solo una cinghia di trasmissione del politico, non esiste più nella forma originaria e un po’ brutale. E che i posti del governo federale assegnati con questa modalità ammontano oggi a 8.000, come si ricava dal Plum Book (United States Government Policy and Supporting Position), il rapporto che ogni amministrazione presidenziale redige all’atto dell’insediamento.
Non dappertutto, comunque, si fa all’americana. La Francia, per esempio, si fa un vanto del proprio ceto dirigenziale pubblico. I burocrati che governano i dicasteri di Governo e le aziende a partecipazione statale studiano in una delle tre Alte scuole: Politecnico, Normale ed Ena, Ecole nationale d’Administration che ha da poco spostato la sede da Parigi a Strasburgo a sottolineare la sua vocazione europea.
I francesi amano dire che conta più un direttore generale del suo ministro. Cosa che non va presa come una lamentela, ma sta a dire che per loro è quasi dogma che politici e dirigenti pubblici siano due facce di una stessa decisione. Uno ci mette la visione politica, l’altro la traduce in norme. Naturalmente, in Francia burocrati si diventa per concorso, salvo il diritto del Governo francese di nominare 700 tra le più importanti cariche burocratiche con emplois à la discretion, ovvero à la decision du government.
Solo steccati invece in Inghilterra, dove vige un regime di assoluta separatezza. I civil servant di Sua Maestà devono addirittura rinunciare a iscriversi a partiti e sindacati. L’anonimato assoluto li rende però tecnicamente “irresponsabili”: essi cioè non rispondono giuridicamente dei loro stessi atti amministrativi, che ricadono interamente sulle spalle dei decisori pubblici. L’apparato amministrativo dipende insomma dalla volontà dei cittadini elettori che scelgono un determinato partito e si attendono che l’amministrazione dello Stato sia conforme alle indicazioni da esso fornito. Al tempo stesso, la politica si astiene totalmente da ogni interferenza nella selezione, formazione e promozione del ceto amministrativo. Una distinzione assoluta, che rende i burocrati di Stato una sorta di tesoretto di competenze intangibile e inattaccabile. Eppure, strano, da quelle parti nessuno grida alla casta.