Complice la giornata tutt’altro che primaverile, Esther Elisha arriva all’appuntamento nel bar milanese sui Navigli infagottata e con i capelli raccolti. Tanto che ci vuole un po’ a riconoscere in lei Feven, la riccioluta violinista che ritroviamo nella seconda stagione di Tutto può succedere, la fortunata fiction che racconta le vicende di una famiglia numerosa, i Ferraro, in onda per tredici serate su Rai 1 con un cast di cui fanno parte Maya Sansa, Pietro Sermonti, Ana Caterina Morariu, Camilla Filippi, Giorgio Colangeli e Licia Maglietta.
Esther ordina un succo di frutta e scandisce: «I capelli per le donne africane sono un forte elemento identitario, raccontano molto di come sei: per questo Feven, che è una donna molto libera come me, li porta così».
Sei nata a Brescia, da madre italiana e padre originario del Benin. Com’è arrivato in Italia?
«In passato qualcuno ha scritto che era emigrato in cerca di lavoro. Non ci sarebbe stato nulla di male, solo che non è vero, perché l’ha fatto per amore. Papà da vent’anni viveva a Parigi, dove insegnava Matematica all’Università. Lì ha conosciuto mia madre, si sono innamorati e siccome lei non se la sentiva di lasciare i suoi genitori a Brescia, si è trasferito lui».
Hai ancora parenti in Africa?
«Sì, tutta la famiglia di mio padre. Sono passati 10 anni dall’ultima volta che li ho visti e vorrei tornare presto».
Ti senti una cittadina europea?
«Sicuramente mi sento europea rispetto agli americani. Per il resto non sono per nulla nazionalista e penso che il diritto di cittadinanza debba essere legato non al fatto di essere nati in un Paese o di avere un genitore con quella nazionalità, come è successo a me. Quello che conta è crescere in quel Paese imparando la sua lingua e i suoi valori. Come può sentirsi un ragazzino che non può andare in gita all’estero con i compagni di classe con cui condivide tutto perché non ha il permesso di soggiorno? Chi si sente rifiutato da una comunità può arrivare a coltivare dentro di sé un rancore molto pericoloso».
A te non è mai capitato di sentirti esclusa o guardata in un certo modo per il colore della tua pelle?
«Certo, il razzismo non è fantascienza, anche se io sono una privilegiata, perché sono cresciuta in una famiglia benestante. Piuttosto quello che sento più pesante in questo momento è lo sguardo sulle donne in generale. Sembra che tutte le conquiste che davamo come acquisite siano messe in discussione».
Feven, il tuo personaggio nella fiction, incarna un problema molto sentito dalle donne di oggi, cioè come conciliare la famiglia con il lavoro. Quando questo momento verrà per te come pensi che ti regolerai?
«Non lo so. Sono abituata a gestire le situazioni volta per volta. Posso dire che anche con il lavoro che faccio mi considero una privilegiata, perché vedo molte colleghe che, rispetto a chi ha un impiego con orari fissi, hanno molto più tempo libero da dedicare ai figli. Allo stesso tempo, mi sembra che noi donne subiamo troppe pressioni verso un’ideale di perfezione impossibile da raggiungere: dobbiamo essere impeccabili sul lavoro, ma anche come mamme, dobbiamo gestire la casa e trovare il tempo per curare il nostro aspetto fisico magari andando in palestra. Ci vorrebbero quattro o cinque vite! Ma il bello è che, anche quando c’è la collaborazione da parte degli uomini, siamo noi stesse a vivere in questa continua tensione che ci porta a non essere mai soddisfatte».
Due anni fa sei stata ambasciatrice di Expo. Il tema era: nutrire il pianeta. Tu che rapporto hai con il cibo?
«Non sopporto lo spreco. Quando viaggio in treno tra Milano e Roma porto sempre con me gli avanzi del pasto del giorno prima. La cosa divertente è che quando ero ragazzina e andavamo in vacanza da Brescia a Parigi mia madre, che ha origini potentine, viaggiava con le scorte di cibo e io la rimproveravo per questo. Lo aveva imparato da sua madre, cioè mia nonna, che è stata una figura fondamentale per me e mia sorella. Veniva a casa nostra tutti i giorni, cucinava i piatti della sua terra e parlava il suo dialetto».
E tu hai imparato a parlarlo?
«Lo capisco, ma so dire solo qualche parola come “ciuoto” che significa “sciocco” e che ha un suono molto divertente».
Grazie a lei sei anche diventata una brava cuoca?
«Sto migliorando molto, ma il cuoco di casa è papà, anche se purtroppo non lo fa quasi mai. Io adoro la cucina africana. Il piatto tipico del Benin e l’ablò: sono delle specie di tortine agrodolci fatte con la semola, che si utilizzano spesso per accompagnare il pesce o la carne al sugo».
Sempre a proposito di cibo, uno dei tuoi ultimi film è Pitza e datteri. Hai altri progetti in ballo nel cinema?
«Fare film mi manca molto, perché rispetto alla Tv c’è più tempo a disposizione, è un modo totalmente diverso di raccontare una storia e ci si può mettere di più alla prova. Ora ci sono tante cose nell’aria, ma ho imparato che finché un progetto non si concretizza è meglio non dire niente».