Umberto D. non è, purtroppo, il titolo di un film famoso. Sono le iniziali di un bambino segnato, tristemente, da un destino che nessuno ha potuto cambiare, pur intravvedendo tutti i segnali predittivi che avrebbero portato all’Umberto adulto di oggi. Forse no, non è proprio così: nessuno che ha a che fare con un bambino, che gioca con lui, che lo vede gioire per un goal fatto o piangere per una partita persa si potrebbe mai aspettare tanto. Umberto è stato un bambino come tanti altri, non come tutti, ma come tanti fatti così: testardi, capricciosi, svogliati nello studio, un po’ prepotenti. Ma anche socievoli, protettivi verso i più piccoli, affettuosi con i cugini, con le maestre, felici e spensierati nei giochi. Non puoi pensare che il bambino Umberto possa diventare di lì a pochi anni il giovane mostro che ieri hanno arrestato. Sì, ieri hanno arrestato 7 mostri a Napoli. E come li vuoi chiamare 7 killer della camorra? Quale altra parola può riassumere lo schifo e la paura che le persone normali provano verso chi fa del male per soldi o per sete di potere?
A Napoli “mostro” viene usato anche per i pedofili, per quelli che commettono reati odiosi, che torturano il corpo e la mente delle vittime e causano particolare ribrezzo. Ma come definire chi ha progettato di chiamare un amico da sempre con la scusa di fare due chiacchiere, di passare un po’ di tempo insieme e poi, tra una risata e l’altra, l’ha ucciso senza pietà? E, più ancora, senza spirito di compassione verso una mamma e un padre che vorrebbero almeno un corpo da piangere, farlo sparire, seppellendolo nel campetto dietro casa? Se non è mostruoso questo, cosa lo è? Non è umano. Chi crede in Dio, dirà che è diabolico, che far male fino a uccidere il tuo prossimo viene dal maligno, dal diavolo, da colui che divide e lacera l’anima delle persone e le separa dalla grazia divina. Chi non crede, dirà che comunque non è umano: che il sodalizio umano, la nostra civiltà deve fondarsi sulla solidarietà tra gli uomini, non sulla sopraffazione.
La nostra generazione non ha conosciuto la guerra sul territorio nazionale. Un miracolo, dopo secoli e secoli di guerre e tragedie. Forse questo non vale per Napoli e provincia. Noi a Napoli abbiamo il triste privilegio di sapere bene cosa sono le armi, gli attentati, le vittime innocenti, i caduti per la patria… Umberto lo abbiamo visto bambino e, pur avendo il papà, gli zii, la nonna in carcere non sapevamo, non volevamo mai figurarcelo uguale a loro, un altro camorrista, un altro mostro che deve difendere e allargare gli interessi della sua famiglia a qualsiasi costo. Invece era proprio così. Umberto è stato arrestato il giorno dopo che un altro mostro camorrista ha sparato a una bambina di 4 anni. Errore o non errore di mira, è un mostro anche lui!
Abbiamo un esercito di mostri. Sono migliaia i camorristi in questa città. Non tutti sparano, ma tanti spacciano (vendono morte), fanno racket, strangolano l’economia delle persone oneste, minacciano e fanno vivere nel terrore famiglie e imprenditori, sporcano e inquinano perché non se ne fregano per nulla dell’ambiente, corrompono gli affari pubblici a danno degli onesti, evadono le tasse (a danno dei più poveri), occupano le case (a danno dei più deboli), frodano gli anziani…
Oggi continuo ad avere tanti Umberto sotto gli occhi, si chiamano Antonio, Giovanni, Michele… Chi scrive è un volontario, un operatore sociale, un docente di scuola, un operatore della giustizia, un cittadino normale… Uno che si fa in quattro, da una vita, per fare prevenzione a favore dei cosiddetti minori a rischio. Scuola e Comune di Napoli (che, va detto, al contrario di tutti gli altri continua a investire tantissimo nella prevenzione) fanno parecchio, molto, tanto… Ma che vuoi fare se mamma, papà, zio, nonno, nonna, cugini e compari di quei minori vivono di camorra? Quanti bambini saranno i nuovi Umberto di domani, con la stessa crudeltà, forse maggiore o forse minore, poco importa, a ogni occasione in cui il clan avrà bisogno di attaccare, o di difendersi, o di allargarsi? Umberto, Antonio, Michele hanno poco da scegliere!
Di fronte a un esercito di camorristi che da decenni aumenta e non diminuisce, di fronte a uno Stato che continua a latitare, incapace di creare vero sviluppo occupazionale, è indispensabile applicare il protocollo Reggio Calabria senza pietà! Questi bambini vanno tolti a questi pseudo genitori, a questi nonni, zii, cugini. Devono crescere in altre zone d’Italia, con l’affetto di persone normali e le opportunità di contesti normali. I camorristi di oggi non sono i lazzari di cento anni fa, non hanno nulla di romantico. Sono “merde” (poveri e ricchi, con i jeans o con i colletti bianchi) che sporcano e imputridiscono tutto quello che toccano, figli compresi. A Napoli (e in molti paesoni della degradata provincia) questi figli non hanno speranza di riscatto!
ANTONIO CATO - Napoli
Una lettera sconsolata la tua, caro Antonio, che è allo stesso tempo la denuncia di una situazione che deve essere affrontata al più presto, partendo dalle istituzioni. Non deve però venir meno la speranza. I figli dei boss non sono destinati a seguire le orme dei padri. Gli esempi di giovani che hanno deciso di ribellarsi e di avere una vita onesta non mancano. Ne abbiamo parlato nel n. 20 del 19 maggio, raccontando la storia di alcuni di loro. Come Giosuè D’Agostino che se n’è andato dalla Calabria dicendo addio alla ’ndrangheta o Antonio Piccirillo, di Napoli, che ha disconosciuto pubblicamente suo padre, afliato alla camorra.
Nel nostro servizio abbiamo anche dato la parola a Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria che applica quello che tu, caro Antonio, hai denito «il protocollo Reggio Calabria», cioè l’allontanamento, quando è necessario, dei ragazzi dalla famiglia e dal territorio. «Le prime vittime della ’ndrangheta sono i giovani», ci ha detto Di Bella, «costretti a respirare una cultura d’odio». Lo stesso vale per la camorra. Eppure qualcosa si può fare per loro, ha spiegato il magistrato, e i risultati sono incoraggianti. Il suo appello è rivolto direttamente ai giovani: «Ragazzi, la violenza non è l’unico destino».
I figli dei boss è anche il titolo di un libro delle Edizioni San Paolo scritto da Dario Cirrincione, nel quale non mancano le storie di chi ha deciso di dissociarsi e allontanarsi dai clan per avere la speranza di una vita nuova. Va detto un grande grazie anche a tutti coloro, insegnanti, operatori sociali, sacerdoti, che ogni giorno si impegnano non soltanto ad aiutare questi ragazzi, ma a combattere una mentalità mafiosa che tende a permeare tutto. Perché lo Stato e le istituzioni devono fare la loro parte, ma la ribellione parte dal cuore e dalle scelte di ciascuno di noi.
(foto in alto: flash mob contro la camorra e contro la violenza nei luoghi di cura organizzato nel cortile dell'Opedale Pellegrini a Napoli, dopo la sparatoria avvenuta lo scorso 16 maggio davanti al pronto soccorso, 27 maggio 2019 ANSA / CIRO FUSCO)