(nella foto di copertina: il medico John Zhang con il bambino - immagine tratta dalla rivista inglese New Scientist)
È nato in Messico e ha 5 mesi il primo bambino nato in Messico e concepito in vitro mediante la tecnica detta dei «tre genitori», scatenando un vivace dibattito mediatico. Ma di che si tratta?
È una tecnica di cui già si parla anche a livello normativo da un paio di anni in Gran Bretagna (“mitochondrial donation”, “mitochondrial manipulation technology” o “MMT”), ma che ha ulteriori precedenti. Questo tipo di manipolazione prevede la generazione di embrioni umani aventi il patrimonio genetico proveniente da tre genitori: due madri e un padre (“three parents baby”). Questa tecnica riproduttiva consiste nella micromanipolazione di due ovociti - quello dell’aspirante madre e quello di una donatrice - in modo da formarne uno solo da mettere poi in contatto, ai fini della fecondazione, con i gameti maschili. L’operazione è la seguente: dall’ovulo dell’aspirante madre si preleva il nucleo e lo si trasferisce nell’ovocita donato a cui è stato tolto il nucleo (che viene, appunto, sostituito con l’altro) e del quale resta il citoplasma che contiene la parte mitocondriale del genoma (i mitocondri sono organelli cellulari trasmessi ai figli per via materna). In pratica, la donatrice dell’ovulo mette a disposizione il citoplasma ivi contenuto (si parla, infatti, di “donatrice citoplasmatica”).
Perché questa modalità procreativa?
Si afferma che essa serve a evitare la trasmissione di una serie di malattie rare causate da alterazioni nel funzionamento dei mitocondri; malattie che possono interessare diversi tessuti e organi in modo non sempre quantificabile e prevedibile.
Deve essere chiarito che: 1) con questo tipo di manipolazione genetica ci si avventura in un campo inesplorato e privo, a quanto risulta al momento, di trials clinici e di esperienza nel campo animale; 2) in diversi casi negli ovociti risultanti da questa “ibridazione” sono state riscontrate anomalie; 3) non è certo che il DNA nucleare e quello mitocondriale, di diversa provenienza, interagiscano in maniera equilibrata e armonica, perciò una volta avvenuta la fecondazione la salute del nascituro è a rischio.
Sul piano antropologico è in gioco l’identità genetica del nascituro, problematicizzata dalla “donatrice di citoplasma” (“madre mitocondriale”). Alcuni ritengono che essendoci una grande differenza tra l’apporto genetico dell’aspirante madre (il DNA nucleare contiene circa 20.000 geni) e quello della donatrice (il DNA mitocondriale contiene solo 37 geni), il contributo “materno” della donatrice è di fatto insignificante e dunque non è esatto parlare di “tre genitori”. Altri, invece, ritengono che per quanto riguarda la donatrice di mitocondri non solo si possa parlare di “maternità” seppure “in dose ridotta”, ma si deve considerare soprattutto che il rilievo antropologico del contributo del genoma genitoriale alla filiazione non è quantitivo ma qualitativo. Pertanto, resta il fatto che si altera volutamente in modo irrevocabile l’identità genetica del figlio e che l’intrusione della “collaboratrice genetica” destruttura l’unità antropologica dell’atto generativo ontologicamente legato solo a una donna e a un uomo.
Si tenga anche presente un ulteriore elemento crititicità: l’eventualità di relazioni complicate tra le tre figure genitoriali, con ripercussioni sul figlio. Una pesante aggravante è l’abbinamento di questa tecnica con la possibile distruzione di embrioni “malriusciti”.
Ferme comunque tutte le riserve etiche nei riguardi della procreazione artificiale, conviene ricordare che il “principio di precauzione” invita alla cautela: se è già risaputo che la fecondazione in vitro, in sé, può provocare nel figlio rischi di malattie per difetti dell’imprinting, perché aggiungere a questi rischi quelli che derivano dalla coesistenza - all’interno dello stesso ovocita - di DNA di diversa provenienza? È proprio assurdo in nome della salute provocare danni alla salute e non solo. Ancora una volta è necessario ricordare che il concepito non è una cosa da “produrre” a nostro uso e consumo, ma “uno di noi”.
(Marina Casini è giurista e docente di bioetica)