L'attesa di un figlio naturale dura nove mesi è molto è stato scritto. L'attesa di un figlio adottivo è più lunga e può sembrare a volte anche una corsa a ostacoli, tra aspettative, gioie, sconforto, passaggi burocratici, autorizzazioni, rinvii, pause ritardi fino ad arrivare al parto... cioè al momento bellissimo dell'incontro. col figlio. Che anche lui aspetta i suoi genitori. Arnaldo Funaro in attesa della sua piccola ha scritto un diario. Sua figlia è arrivata nel 2014, si chiama Mia Chenya: «Abbiamo mantenuto il nome cinese (Chenya) su consiglio degli assistenti sociali, che ci hanno suggerito anche di darle un nome italiano. Da grande, ci hanno detto, deciderà lei come farsi chiamare, quando in alcune fasi potrebbe voler rivendicare in modo più forte le proprie origini. Il nome Mia, invece, è nato col diario. l'incipit di ogni post era: Buongiorno piccola mia. Da lì trasformare la m di mia da minuscola a maiuscola, ci è venuto naturale...». E poi questa pagina Facebook è diventata un volume (Un bimbo mi aspetta (Log Edizioni), utile per tutti coloro che desiderano comprendere l'esperienza complessa ma straordinaria dell'adozione.
Quanto avete atteso l’arrivo di vostra figlia?
«Credo che questa domanda meriti due risposte. La prima, per dare un ordine temporale a chi legge e sta cercando di adottare un figlio: tre anni dal momento della richiesta di adozione. Ma l’attesa cambia di coppia in coppia in base a tante ragioni. C’è chi aspetta meno (molto raro) e chi aspetta molto di più.La seconda: sei anni, un mese e ventidue giorni. Il tempo che ci ha separato dal momento in cui per un aborto spontaneo abbiamo perso nostro figlio, fino al giorno in cui abbiamo incontrato Mia».
Come è nata l’idea di un diario?
«L’idea di questo diario è nata dalla complessità. Adottare un figlio significa misurarsi con molte prove emotive, burocratiche, economiche. Mi sono chiesto come avrei potuto spiegare tutto questo a mia figlia e ho deciso di scrivere la sua storia in parole semplici, affinché potesse comprendere qualcosa che anche un adulto ha difficoltà a capire».
Quali sono state le difficoltà nell’attesa?
L’attesa in sé perché ogni volta che si superava uno step era da una parte un motivo di gioia, dall’altro la presa di coscienza che davanti a noi c’era ancora tanto da fare.
In questo percorso ci saranno stati momenti belli e brutti...
«Il momento più brutto è stato l’inizio di tutto, perché era anche la fine di qualcosa. Abbiamo scoperto che il feto nel grembo di mia moglie era morto proprio nel giorno del suo compleanno. Siamo tornati a casa storditi, confusi e feriti. Abbiamo perso la nostra complicità, la voglia di progettare e fiducia nel nostro destino di coppia. L’adozione, o meglio il percorso e tutte le sue difficoltà, in un certo senso ci ha fatto rinascere».
E il più bello?
«Credo non ci sia bisogno di cercarlo. Il giorno, anzi l’istante in cui mia moglie e mia figlia si sono incontrate davanti ai miei occhi. Era l’inizio della nostra vita insieme. È stata un’uscita dal grembo, ma per entrambi».
Che differenza c’è secondo lei con l’attesa di un parto?
«Credo sia diversa per ognuno di noi. L’attesa del parto l’ho vissuta, seppur brevemente. Ricordo che ne ero in qualche modo distaccato, quasi uno spettatore. Nell’adozione, si partorisce in due, perché se non si è uniti, non si arriva alla fine del travaglio. Come dico spesso, l’adozione può distruggere una coppia o renderla ancora più forte. Noi siamo stati fortunati, perché la ricerca di Mia ci ha resi più complici, più amanti, più amici».
Un diario, il suo, che nasce su Facebook
«Quando ho iniziato a condividere il mio diario sulla pagina facebook Un bimbo mi aspetta, mi sono sentito come una pioggia dopo un periodo di siccità, perché velocemente sono fioriti commenti e partecipazione da tantissime mamme che avevano già adottato e altre che ancora non lo hanno fatto.Improvvisamente, poi, la partecipazione si è allargata finendo per coinvolgere anche le mamme di pancia, cioè quelle che hanno partorito. Questo mi ha insegnato che la biologia, nel rapporto tra genitori e figli, è una parte importante, statisticamente predominante in natura, ma non esclusiva».
Cosa altro ha imparato confrontando la sua esperienza con gli altri genitori?
«C’è una frase di una canzone dei Dire Straits che mi accompagna da quando sono ragazzo: “There’s so many different worlds, so many different suns. We have just one world, but we live in different ones”.I genitori adottivi, come tutte le persone del mondo, sono convinti di vivere un’esperienza assolutamente unica e incomprensibile. Lo è in effetti, soprattutto rispetto a chi non la vive: genitori, amici, colleghi. Tutte queste persone – e lo dico senza alcuna polemica – sono assolutamente incapaci di misurarsi con la frustrazione, la sofferenza, i sogni a occhi aperti di chi adotta. Mia madre, per esempio, una volta letto il libro mi ha chiamato per dirmi: “Scusaci, non avevamo capito”. Così, pian piano ci si chiude e si tende a non condividere il proprio percorso con nessuno, ritrovandosi a gestire nei fatti solo un lungo processo burocratico apparentemente senza fine».
Lei scrive come papà ma sua moglie, la mamma, che ruolo ha avuto?
«L’altra lezione che ho imparato è che le donne, come tanto spesso accade nella vita, sono l’elemento forte della coppia, capaci di trasformare l’apparente sconfitta di una gravidanza mancata in una famiglia. Loro traghettano la coppia in questo mare attraversato da tempeste di sentimenti, costellato di scogliere di documenti, timbri, visite, bonacce di attese apparentemente infinite.Ma, infine, la cosa più importante che mi ha insegnato quest’esperienza è che se è vero che ci sono persone che non vogliono essere genitori, non esistono bambini che non vogliono essere figli. Di questi bambini è pieno il mondo. E stanno aspettando noi, per diventare finalmente figli».