Anche questa estate è stata funestata dalle cronache che riferivano di persone morte mentre praticavano sport estremi o si dedicavano a imprese estreme. Ha
scosso tutti l’episodio del dodicenne di
Ivrea precipitato mentre si arrampicava
in Alta Provenza. Diversi scalatori hanno
trovato la morte sul Monte Rosa e sul
Monte Bianco. Siamo rimasti senza parole leggendo del sedicenne di Fermo, scivolato dal cornicione di un palazzo dopo aver gridato agli amici: «Guardatemi, guardate che cosa so fare». Stava probabilmente praticando il parkour, la strana moda di seguire un percorso passando anche da tetti e cornicioni... E anche deltaplani e parapendii
trasformano talora in tragedia il
sogno di volare.
Appartiene alla natura umana
l’anelito a spostare sempre più in
là il confine del possibile, a misurare
le proprie forze contro i limiti imposti
dalla realtà. In questa tensione all’illimitato
risiede in fondo il tratto distintivo
dell’uomo rispetto agli animali
e alle cose: nella libertà e con l’intelligenza
che gli sono date, egli è costantemente
proteso a scrivere una nuova pagina
di storia. E tale avventura è accompagnata
da forti emozioni, che la rendono
ancora più bella e irresistibile.
Come giudicare questi episodi? Sono
“caduti” nell’esercizio della loro umanità,
vittime di fatalità, o si tratta di spericolati
che hanno rischiato troppo, vittime
della propria presunzione? Dove finisce
la corsa verso il progresso e dove
comincia la consegna all’incoscienza?
La cultura cristiana offre un criterio
chiaro e decisivo per rispondere a simili
interrogativi: il primato assoluto della
persona, ovvero, il valore impareggiabile
della vita umana.
Impegnarsi – utilizzando
tutte le risorse fisiche, psichiche
e intellettive di cui si è dotati – per
raggiungere nuovi traguardi è lecito; di
più è espressione di quella peculiarità
che fa dell’uomo un essere unico, un
Ulisse mai sazio di “verità”.
Nel momento in
cui la nostra impresa si
trasforma in un’esposizione
eccessiva al pericolo,
tale da mettere a
repentaglio la vita, propria
e altrui, non è giustificabile.
Anche perché
denuncia poca consapevolezza
dei propri limiti, un delirio
di onnipotenza dal quale non possono
che sortire effetti deleteri.
Occorre inoltre definire il fine della
nostra azione: un conto è morire per salvare
un’altra vita, un altro per godere
di un brivido in più. Non c’è brivido
che valga una vita.