Don Emanuele Giannone, direttore della Caritas della diocesi di Porto Santa Rufina, è il cappellano del Cie di Ponte Galeria, il più grande d’Italia. Tra inferriate e lucchetti, le alte sbarre della sezione maschile culminano in pannelli di plexiglas per evitare che i reclusi si arrampichino e tentino la fuga. Nella sezione femminile, si incontrano ragazze nate in Italia che non hanno ottenuto la cittadinanza, donne vittime di tratta e prostituzione, badanti mai regolarizzate. Ponte Galeria è stata al centro dell’attenzione per la “rivolta delle bocche cucite”, poco prima di Natale e nuovamente a fine gennaio. La prima si è conclusa proprio con una missiva consegnata a don Emanuele, un appello a Papa Francesco.
Qual è la situazione oggi?
«In questi giorni, il cosiddetto “gruppo di Lampedusa” – giovani marocchini trasferiti qui dall’isola dopo il video del Tg2 – ha le commissioni per la domanda di asilo politico. Racconteranno le loro storie di sofferenza, ma è molto difficile un esito positivo. Loro stessi fanno fatica a capire questi passaggi burocratici e non hanno ben chiaro i documenti che firmano: è difficile addirittura per noi che leggiamo e parliamo bene l’italiano. In ogni caso, un loro rimpatrio vorrebbe dire affrontare gli strozzini con cui si sono indebitati per venire in Italia, tornare a lavorare in Libia da cui sono fuggiti, dire alle proprie mogli e figli che il loro viaggio è fallito. Penso in particolare a un ragazzo marocchino che ha domani la commissione, 21 anni, sposato con un bambino. È partito con il barcone dalla Libia, insieme ad altre tre “carrette del mare”: una di queste è affondata e lui e i suoi compagni hanno dovuto rifiutare di prendere a bordo i naufraghi perché altrimenti sarebbero colati a picco pure loro. Questo giovane, dell’Italia che ha raggiunto per lavorare e avere una vita dignitosa, ha visto solo Lampedusa, Ponte Galeria e il tragitto in pulmino da un centro all’altro».
Da dicembre la situazione è cambiata?
«No, la situazione è uguale; anche in questi giorni continuano gli arrivi, specie dal carcere. Questo è uno dei paradossi del Cie: qui vengono reclusi per mesi persone che hanno già scontato la loro pena solo perché durante il periodo del carcere non sono stati identificati. È un’aggiunta di pena ingiusta. Ora speriamo che il Decreto carceri appena approvato ponga rimedio a questa situazione. Inoltre, è evidente che non è intelligente far stare nello stesso posto ex carcerati, normali cittadini che hanno perso il permesso di soggiorno e profughi appena sbarcati».
Da dove nascono le proteste?
«Ciascuna ha la sua storia e la sua causa scatenante, ma tutte nascono dalla condizione di queste vite spezzate. Il Cie è un luogo che crea esasperazione: le persone stanno lì, non sanno per quanto tempo e perché ci devono stare, senza poter far nulla tutto il giorno, in attesa di essere separati dai propri affetti con un rimpatrio in un Paese in cui in alcuni casi sono solo nati. Proviamo a immaginare cosa staranno facendo ora i ragazzi a Ponte Galeria: stesi su un materasso di spugna, con una coperta addosso, senza fare nulla. Qualcun altro starà cercando un po’ di attenzione dagli operatori: magari per poter andare dal medico, oppure per avere una sigaretta. Anche noi quando entriamo non possiamo fare nulla: la prefettura ci impedisce di portare anche solo una penna, perché troppo pericolosa. Nel carcere, si riesce a fare di più. Nel Cie, invece, nonostante la buona volontà di alcuni operatori, la persona è annientata nella propria dignità. Sono svuotati del loro essere uomini, di esprimere le possibilità che l’uomo ha, di avere relazioni, di poter immaginarsi e adoperarsi per costruire il proprio futuro. Durante la protesta di dicembre, quando volevano addirittura cucirsi le palpebre, alcuni giovani marocchini mi hanno detto: per noi la tortura è iniziata il giorno in cui siamo entrati qui dentro».
Qual è la testimonianza cristiana dietro le sbarre del Cie?
«Nonostante la maggior parte dei detenuti sia musulmano, sanno che la Chiesa è dedita ad ogni uomo e non fa differenza tra cristiani e persone di altre religioni nel dare una mano e difenderne i diritti. Tra le celebrazioni che facciamo a Ponte Galeria, la più intensa è sicuramente la Via Crucis: sostare davanti alla Croce, in modo impotente (non puoi far scendere Cristo), vuol dire stare nel Cie, che è un vero e proprio Calvario. Tutti hanno pensato al fallimento del Messia, così come i migranti che hanno perso tutto rinchiusi nel Cie e sono senza speranza. Stare ai piedi della Croce è la testimonianza cristiana e personalmente devo dire che in tutte le celebrazioni sono aiutato a pregare, come sacerdote, dal desiderio ardente che si respira da queste vite spezzate».