Si sa che è più difficile contrastare la criminalità organizzata quando finisce sottotraccia, perché venendo meno le notizie eclatanti, l’attenzione dell’opinione pubblica cala. Ci siamo chiesti che cosa un evento come l’arresto di Matteo Messina Denaro, latitante da trent’anni, considerato nell’ottica rovesciata dell’organizzazione uno dei capi “carismatici” vecchia maniera, possa rappresentare in fatto di impulso al contrasto. Ne abbiamo parlato con Fausto Cardella che nel 1993 – quando avvennero le stragi sul continente - era impegnato nelle indagini sulle stragi di Capaci e Via d’Amelio sul fronte caldissimo della Procura di Caltanissetta.
«Un arresto così eclatante», riconosce il magistrato in pensione da pochi anni dopo avere guidato in ultimo la Procura generale di Perugia, «ha tra i vari effetti anche il rinvigorire l’attenzione su un fenomeno che invece tende, dopo la parentesi delle stragi, ad agire sotterraneamente. L’arresto rinfocola l’attenzione, cosa che è sempre positiva, ma anche dà un segnale ben preciso: che lo Stato ci ha messo trent’anni, che i problemi ci sono stati, ma che alla fine ci è arrivato. Un secondo effetto è quello di mettere un freno – anche se non basterà a fermarli – a tutte le dietrologie e i complottismi, sentiti in questi anni, con tante ipotesi indimostrabili. Altra considerazione: ci eravamo tutti un po’ illusi che la situazione a Palermo fosse cambiata, ma questa cattura per il suo contesto ci dice che la rivolta dei siciliani onesti e il movimento antimafia, che di sicuro ci sono stati, non sono bastati a sgretolare lo zoccolo duro».
Fausto Cardella
Continua la tradizione delle lunghe latitanze dentro casa. Anche questo non un caso? «Il latitante mafioso può fare delle “trasferte”, ma non può abbandonare il territorio. E infatti tutte le ricerche da parte delle forze di polizia giudiziaria, che ne capiscono, sono state fatte nel territorio suo tipico e non a caso è stato trovato a Palermo, anche perché è il luogo dove, avendo una rete, è più facile nascondersi. Detto questo, dobbiamo fare i complimenti ai carabinieri, al generale Angelosanto col quale ho avuto in passato il privilegio di lavorare, ma anche a tutte le forze di polizia giudiziaria che in questi anni hanno stretto il cerchio. E poi diciamolo pure al procuratore di Palermo De Lucia: questo evento ci serva a ricordare che è bene che la Polizia giudiziaria continui a essere coordinata dalla magistratura».
Tante volte ci siamo detti negli anni che l’arresto dei corleonesi aveva in qualche modo modificato l’assetto di Cosa nostra nel senso che, che si sappia, la Commissione, la cosiddetta “cupola” non sarebbe più stata ricostituita come allora. Cambia qualcosa di materiale o cambia qualcosa solo a livello simbolico una giornata storica come quella in corso?
«Parlo non per esperienza diretta ma per le cose che ho potuto leggere e studiare nel lavoro dei colleghi: dopo l’arresto di Totò Riina c’è stato un continuo rinnovo della commissione ma con una impossibilità di selezionare i componenti: venivano arrestati in continuazione. L’unico che restava veramente fuori, con un “carisma” paragonabile ai predecessori, era Matteo Messina Denaro. Ora non ci si può avventurare in considerazioni aleatorie sulle conseguenze che questa cattura potrà avere, ma una cosa si può dire: è un colpo grossissimo per lo Stato, un successo di cui si sentiva veramente il bisogno, però non illudiamoci che finito Matteo Messina Denaro sia finita la mafia e neppure quella mafia. Si stavano già riorganizzando: la vecchia, i nuovi, le vecchie famiglie… i figli stanno ritornando a Palermo, illudersi che l’arresto di un capo destinato fisiologicamente a uscire possa essere un colpo mortale alla mafia non è possibile. Il contrasto deve continuare, l’attenzione deve continuare con la soddisfazione di avere fatto un bel colpo, di immagine e di sostanza».