«Vi darò un cuore nuovo».
Quella di prendere alla
lettera la profezia di Ezechiele
è un’utopia vagheggiata
dalla medicina per secoli: prima
ancora che il sudafricano Christiaan
Barnard nel 1967 realizzasse il primo
trapianto di cuore, medici come Renato
Donatelli – tra i primi al mondo a sostituire
una valvola cardiaca con una artificiale – inseguivano quello che ancora
appariva come un sogno e che sta conoscendo
negli ultimi anni un sempre più
rapido sviluppo.
In realtà, oggi, quello di un cuore arti ficiale più che un sogno è un bisogno,
come spiega Gino Gerosa, direttore del
Centro di cardiochirurgia dell’Ospedale
di Padova: i cuori da trapiantare, infatti,
non ci sono più. E tutto sommato è una
buona notizia: «L’Italia è ai primi posti
in Europa per donatori di organi ma la
legge che ha reso obbligatorio il casco
ha fatto crollare il numero di donatori
da trauma nei giovanissimi. Se prima
l’età media era 18 anni, oggi siamo saliti
a 45».
Insomma, il donatore italiano tipo
non è più il ragazzino morto in un incidente
con il motorino, ma un cinquantenne
deceduto per emorragia cerebrale
o ischemia. «Si tratta però di patologie
che hanno fattori di rischio e anche l’età
avanzata impatta negativamente sugli
organi. La gran parte dei donatori,
quindi, non può essere utilizzata per
trapianti di cuore». Oggi in Italia se ne
effettuano 320 all’anno, ma rappresentano
meno del 40 per cento dell’effettiva
necessità. «Questo ci obbliga a trovare
delle alternative: poter disporre di
un cuore artificiale diventa una priorità
fondamentale».
A oggi esiste solo un modello di cuore
artificiale in grado di sostituire completamente
quello del paziente: si chiama
Cardiowest ed è prodotto dall’americana
SynCardia. È stato sviluppato da un
ricercatore olandese – Willem Kol – che
l’ha impiantato per la prima volta nel
1982.
La tecnologia, spiega Gerosa, è molto
semplice: si tratta di due gusci di poliuretano
dotati di una membrana che viene
movimentata dall’aria compressa. Il
dispositivo è collegato tramite due tubicini
a un compressore che pompa l’aria
nei ventricoli artificiali. Un meccanismo
non elettrico, quindi, ma pneumatico
e il paziente, non avendo più un cuore
biologico, pur con una pressione sanguigna
normale presenta un elettrocardiogramma
piatto.
In Italia è stato impiantato per la prima
volta il 6 dicembre 2007 in un uomo
di 52 anni dall’équipe guidata dal professor
Gerosa nell’Ospedale di Padova.
Il grande vantaggio del cuore artificiale è che non presenta il problema del
rigetto e di conseguenza la necessità di
terapie immunosoppressive, anche se
richiede l’uso dei farmaci anticoagulanti.
«Si tratta però di un dispositivo ponte.
Garantisce, cioè, la sopravvivenza del
paziente in attesa di trapianto».
Il Cardiowest, infatti, impone condizioni
di vita non molto semplici: il compressore
con le batterie è totalmente
esterno ed estremamente rumoroso e
il trapiantato deve portarlo sempre con
sé in uno zainetto. Fino a pochi mesi fa,
poi, esisteva un solo modello, quello da
70cc, compatibile esclusivamente con il
torace di un uomo adulto.
«Proprio nei mesi scorsi è stato sviluppato
un nuovo modello, quello da
50cc, che ci ha permesso – tra i primi al
mondo – di impiantarlo salvando la vita
di un paziente molto giovane». Lo storico
intervento, durato 11 ore, è avvenuto
proprio a 30 anni dal primo trapianto di
cuore effettuato in Italia, sempre a Padova
nel 1985.
La strada per arrivare a un dispositivo
che possa sostituire definitivamente
il cuore umano, è comunque ancora
lunga: «Il Cardiowest a oggi è l’unico
cuore artificiale utilizzabile, ma sono
molte le tecnologie alternative in via di
sviluppo». La più avanzata è quella della
francese Carmat: un vero e proprio
cuore bionico totalmente impiantabile
sperimentato – a partire dal 2013 – su tre
pazienti. «Ha un grande futuro perché è
silenzioso in quanto elettrico: inoltre ha
valvole biologiche quindi la biocompatibilità
è maggiore». Anche Carmat ha una
batteria esterna, ma molto più leggera
e si può indossare come una cintura. «Il
grosso limite è che è molto voluminoso e
questo lo rende incompatibile con le dimensioni
del torace del 25 per cento degli
uomini e del 75 per cento delle donne».
Ma c’è ancora grande spazio per la ricerca
e Padova è in prima linea: «Stiamo
sviluppando un cuore artificiale che ha
eccellenti caratteristiche di biocompatibilità
e silenziosità ma è molto più piccolo». Con queste caratteristiche sarebbe
il primo al mondo: «Abbiamo già l’attuatore,
ovvero il meccanismo di funzionamento.
La batteria, in questo caso, non
sarebbe esterna ma inserita all’interno
del torace e farebbe uso di nuovi sistemi
di trasmissione transdermica a radiofrequenza:
in pratica si potrà ricaricare avvicinando
alla cute la sorgente di energia». Parallelamente a questo progetto,
l’équipe di Gerosa sta lavorando anche
su un cuore artificiale totalmente biologico
e bio-ingegnerizzato. «L’idea è quella
di decellularizzare un cuore di maiale
e ripopolarlo con le cellule staminali
del ricevente, rendendolo così perfettamente
biocompatibile. Si tratta di un
progetto ancora lontano ma che risolverebbe
gran parte dei problemi legati ai
trapianti». L’ostacolo principale è quello
economico: «Abbiamo bisogno di 50
milioni di euro per portare avanti i nostri
progetti». Anche per questo il professore
lancia un appello per il sostegno
alla ricerca: «Garantire la sopravvivenza
a un essere umano», conclude, «da un
punto di vista etico non ha pari».