ALESSANDRO T. - Sembra che un Dio lontano, impassibile spettatore abbia mandato il proprio Figlio per espiare i nostri peccati, le nostre colpe davanti a Lui e solo con la morte del proprio Figlio si ritenga “soddisfatto”. È così?
«Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture» (1Cor 15,3). Questa parola di Paolo, in particolare la particella “per” che collega la morte di Gesù ai nostri peccati, può essere interpretata in due modi: “a causa dei nostri peccati” e “a favore (pro) dei nostri peccati”. Nel primo caso signica che la morte atroce del Crocifisso, causata da una ingiusta condanna, è tale perché avviene in un contesto di peccato, appunto di ingiustizia. Il Figlio, incarnandosi, prende su di sé l’umanità infetta dal peccato e ne subisce le conseguenze fino alla fine. Nel secondo caso, in quanto atto di amore, questa morte ci redime, non perché soddisfa un bisogno di compensazione di Dio, ma perché ci mostra che l’unica via di redenzione è l’amore incondizionato e gratuito fino al dono di sé. «Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore», recita il ladrone nel Testamento di Tito, presente nell’album La buona Novella di Fabrizio De André. E in questo atto supremo di donazione, che Gesù vive in prima persona, sono coinvolti anche il Padre e lo Spirito. In questo senso è un atto della Trinità Santissima che si realizza nel Figlio.