Scrive papa Francesco: «Anche quando la malattia, la solitudine e l’inabilità hanno il sopravvento sulla nostra vita di donazione, l’esperienza del dolore può diventare luogo privilegiato della trasmissione della grazia e fonte per acquisire e rafforzare la sapienza del cuore». È esattamente questo il senso della vita (e della morte) di Mirella Solidoro, di Taurisano, nel Salento, dove è nata e ha vissuto per tutta la vita. È morta il 4 ottobre 1999 dopo vent’anni di terribili sofferenze a causa di un tumore al cervello che negli anni progressivamente le aveva tolto la vista e poi anche la possibilità di muoversi.
Il 3 maggio 2008, con il via libera della Congregazione per le cause dei santi, è iniziato il processo di beatificazione. La fase diocesana del processo si è aperta ufficialmente il 1° ottobre 2014. «Sono stati ascoltati 61 testimoni, ora stiamo raccogliendo tutti i documenti», spiega don Napoleone Di Seclì, parroco della chiesa dei Santi martiri, Giovanni Battista e Maria Goretti, la parrocchia di Mirella, e suo confessore negli ultimi anni di vita.
Nella logica del mondo, quella di Mirella è la vita di una persona particolarmente sfortunata perché ammalatasi e morta giovane. Nella prospettiva di fede, un esempio luminoso di come vivere il mistero della sofferenza e del dolore. Lo scarto è tutto qui. Dirompente. Scandaloso, persino. E incomprensibile se si prescinde dalla logica del Vangelo. «Anche le persone immerse nel mistero della sofferenza e del dolore, accolto nella fede, possono diventare testimoni viventi di una fede che permette di abitare la stessa sofferenza», scrive ancora papa Francesco nella lettera per la Giornata mondiale del malato 2015. Ricorda don Napoleone: «Quando entravo nella sua stanza avvertivo la potenza di Dio. Curioso, no? Eppure era debolissima, uno scricciolo consumato dalla sofferenza. Ma questo è san Paolo! È quando sono debole che sono forte, perché Dio opera anche attraverso le nostre debolezze».
A Taurisano l’attesa per la sua beatificazione è scandita dal tentativo – per nulla semplice – di mettersi in sintonia con la vita di Mirella, capirne il senso profondo, attingendo ai suoi scritti, che compose dettandoli alla madre o alle persone che andavano a farle visita e alle persone che l’hanno conosciuta e incontrata. Ancora un paradosso: com’è possibile che Mirella, dal suo letto di dolore, potesse dare coraggio, conforto, consolazione addirittura, alle persone che andavano a trovarla? Eppure è quello che è successo, come raccontano le persone che l’hanno conosciuta. Nella sua casa, assai modesta, arrivavano tantissime persone, gente semplice, religiosi, vescovi. «Vengo qui per ricevere lezioni di fede», diceva monsignor Mario Miglietta, vescovo della diocesi di Ugento–Santa Maria di Leuca. «Stare con lei», raccontano Ivo e Marietta Fracasso, entrambi medici, «era per noi motivo di gioia, era come stare in Paradiso e ce ne tornavamo a casa colmi di pace e di amore. Soffriva molto ma non si lamentava mai». La sua forza? «Accettare la sofferenza come un dono», dice Marietta, «e offrirla al Signore per la salvezza delle anime». Ebbe diversi fenomeni mistici, Mirella, come racconta ancora Marietta: «All’inizio non voleva parlarne, poi mi confidò che sul suo corpo aveva stimmate invisibili. Il suo dolore si faceva più intenso nei venerdì di Quaresima».
Qual è, dunque, il senso autentico della santità di Mirella Solidoro? Vito Angiuli, attuale vescovo di Ugento, non ha dubbi: «Vivere e morire, dare e ricevere: quattro verbi che contengono la preziosa saggezza della sua fede alla quale ella ci invita ad attingere per trasformare la sofferenza in un inno di lode a Dio e in un gesto di solidarietà con il dolore di tutti gli uomini». E siccome quella di un santo non è solo una vita illuminata ma un modello da proporre a tutti i cristiani, Angiuli spiega: «Ispirandosi alla sua testimonianza, i fedeli dovrebbero imparare a conoscere il misterioso segreto del dolore: mettere le ali alla vita, come scriveva Mirella: “In un primo momento anch’io mi sentivo come un uccello al quale il Signore voleva tagliare le ali, ma ho capito poi che lui taglia le ali piccole per darci ali più grandi, per volare verso di lui e così queste benedette ali sono le ali dei nostri fratelli”».
Ecco la sapienza del cuore di Mirella, frutto non di studi (dovette interromperli all’inizio delle scuole superiori a causa della malattia) ma della grazia. «Esistenza breve e audace la sua», ha scritto il postulatore della causa, padre Cristoforo Aldo De Donno. «Tra dolori inauditi, preghiera ininterrotta, fenomeni mistici», condusse «una sana attività apostolica non apparente, colma del carisma dell’esortazione, porgendo serenità a migliaia di persone: tribolati, stanchi, scoraggiati, insieme al coraggio cristiano di poter affrontare la vita».
Don Napoleone, che in questo processo ci sta mettendo impegno e passione, spera che la fase diocesana si concluda «entro l’inizio del 2016». «Poi deciderà Roma». Ma per molti Mirella è già santa. Perché ha intuito, donandolo agli altri, che l’itinerario della sua esistenza è stato guidato dalla Grazia.