Le vicende della famiglia di Lavagna hanno scosso tutti per le conseguenze irreversibili seguite a un fatto di per sé piuttosto ordinario: un ragazzo che viene scoperto in possesso di qualche grammo di hashish e che viene accompagnato a casa da qualche agente per ulteriori accertamenti. Ci immaginiamo un adolescente che cerca nel consumo di hashish emozioni forti. Il suo cervello gli ha fatto scegliere questo sentire come qualcosa di piacevole da sperimentare. Il ritorno a casa scortato dagli agenti e il confronto con la mamma, giustamente arrabbiata e sorpresa, hanno acceso nella mente del ragazzo nuove emozioni: una vergogna incontrollabile, un sentirsi sbagliato, indegno o forse solo una profondissima tristezza. Un sentire che per lui è stato incompatibile con la vita. Un sentire troppo doloroso che non sarebbe riuscito mai a comunicare con le parole. Il gesto estremo è stata l’unica via da percorrere. Dentro di lui è esploso un male che ha cancellato tutti gli appigli di salvezza.
Se ci pensiamo bene è capitato a tutti di sperimentare momenti di dolore deflagrante. Come farvi fronte? A volte l’unica via per uscirne è tollerarlo per un po’ finché si attenua. L’altra via è provare a trovare un modo per farlo uscire, una via d’espressione. Uno sguardo da cercare senza paura, una confidenza tra le lacrime, un urlo, uno sfogo, ma comunque un buttare fuori, un liberarsi un po’ perché quel dolore tenuto dentro è troppo forte. Sembra impossibile riuscire a farlo ma se succede poi sentiamo che qualcosa è cambiato, che stiamo meglio. Questa capacità ha bisogno di allenamento. Non si improvvisa, specie quando tutto in noi è in allarme generale, quando stiamo troppo male.
Il ragazzo di Lavagna non ha trovato altro modo per liberarsi di quel dolore assordante che gli è esploso dentro. Nessuno saprà mai bene quali siano state le cose che ha pensato e soprattutto quelle che ha sentito, le facce del suo dolore. Di certo in quell’istante tutto in lui è andato in cortocircuito lasciando attivo solo il dolore. Un dolore così potente da uccidere e da qui il gesto inspiegabile per gli occhi esterrefatti della mamma, del suo compagno e del militare: il ragazzo si alza come per prendere una boccata d’aria e si butta giù dal terzo piano. La disperazione è constatare che dentro di lui non si sia acceso un pensiero sufficientemente forte da fermarlo in tempo. Una vocina che gli dicesse che un modo diverso per uscirne ci poteva essere. Che questo poteva proprio essere un momento importante per ripartire, per costruire qualcosa di nuovo. Che non era la fine del mondo e che poteva cavarsela. Che lui era abbastanza forte per dare spiegazioni, per sostenere i rimproveri dei genitori, per tollerare i loro sguardi delusi. Lui era abbastanza forte per reggere quel momento. Se solo dentro di lui avesse visto oltre quel dolore terribile, quell’errore poteva essere un’occasione per cambiare tante cose. Invece dentro di lui non si è acceso niente di abbastanza forte.
Il pensiero che da questa tragedia ogni adulto può fare suo è l’importanza di allenare la capacità di dare parole alle emozioni. Dobbiamo allenarla prima di tutto in noi stessi. Poi col nostro partner, con i nostri figli, con gli amici dei nostri figli, con i colleghi, etc. Ogni occasione è buona per non far finta di niente, per non lasciare cadere. Se sentiamo un’emozione potente non abbassiamo lo sguardo. Dimostriamo il coraggio di condividere, di ascoltare senza spaventarci e senza spaventare.
Il dolore dei genitori di questo ragazzo ora è magma incandescente. Un terreno da rispettare e da non invadere. A loro va la nostra vicinanza e solidarietà, perchè nessuno dovrebbe mai trovarsi a vivere una situazione simile. L’augurio è che trovino modi e persone per condividere questo dolore e riuscire a sopportarlo.