Il fotografo Enrico Genovesi
«Sono tanti gli aspetti significativi che ho visto convivere a Nomaldelfia: accoglienza, fede, sobrietà, giustizia, sono infatti alcuni dei tratti distintivi che senti frequentandola. Che tu sia lì presente come visitatore occasionale o come, nel mio caso, fotografo, non puoi non percepirli». Enrico Genovesi ha raccontato attraverso le immagini la Comunità fondata dal don Zeno Saltini nel 1948 libro Nomadelfia, Un’oasi di fraternità (Crowdbooks editore) che rappresenta un viaggio con 72 immagini in bianco e nero e contributi testuali del poeta e scrittore Franco Arminio, della photo editor Giovanna Calvenzi e del sociologo Sergio Manghi.
Che tipo di sguardo occorre per cogliere in profondità la fraternità di Nomadelfia?
«La fraternità, il concetto cardine che anima questa Comunità e che si trova integrato anche nel suo nome, è senz’altro il punto su cui si è concentrata la mia attenzione di fotografo, anche se non solo su questo. Sono tanti gli aspetti significativi che ho visto convivere in questa realtà: accoglienza, fede, sobrietà, giustizia, sono infatti alcuni dei tratti distintivi che senti frequentandola. Che tu sia lì presente come visitatore occasionale o come, nel mio caso, fotografo, non puoi non percepirli. Per cogliere la profondità di questi valori mi è stato quindi sufficiente vivere e raccontare la loro quotidianità. L’ho fatto per un lungo periodo di tempo e sempre con uno sguardo rispettoso, mai giudicante. Il mio abituale intento di non fermarmi alla superficie delle cose è stato da subito compreso e questo mi ha consentito di poter interagire, seppur con discrezione, sentendomi parte delle loro attività quotidiane. Si è così sviluppata una frequentazione che è andata ben oltre “l’esigenza fotografica”. Con alcuni nomadelfi, ovviamente quelli che ho conosciuto meglio, sono nati rapporti di grande affetto. Ogni volta che mi ritrovo ad andare a Nomadelfia vengo oramai accolto non più come un semplice fotografo, ma come un caro amico, e questo è davvero bellissimo. Mi piace pensare che questo libro sia anche sintesi di questo bel rapporto di amicizia».
Nell'affrontare questo viaggio che cosa ti ha maggiormente sorpreso? E c'è anche qualcosa che invece ti ha deluso?
«Quando mi sono avvicinato per la prima volta a questa realtà, avevo un’idea sì, ma comunque piuttosto vaga. Il termine stesso di “comunità” mi faceva immaginare qualcosa di chiuso, fisicamente circoscritto e di molto autoreferenziale. È stata quindi una sorpresa constatare che quanto ipotizzavo, forse con qualche preconcetto, si è rivelato totalmente sbagliato. In Nomadelfia non esistono cancellate, muri di confine o varchi d’ingresso. Non è infatti una realtà chiusa, né fisicamente, né mentalmente. Di fatto è collocata in un’area rurale “aperta”. Sì, è vero, la loro vita si svolge principalmente all'interno di quest’area dove viene portata avanti una attività agricola e altre di varia natura, ma il rapporto con l'esterno è continuo. Ecco che la mia ammirazione per la comunità, per i principi e i valori che persegue e preserva, ha fatto sì che il mio impegno andasse ben oltre l’idea iniziale di una breve narrazione, trasformandosi in un sentito progetto a lungo termine che oggi, dopo quattro anni di lavoro, trova testimonianza in forma di libro. Quella che credo sia la sua più giusta collocazione».
La sensibilità di un laico riesce, per paradosso, a percepire meglio una realtà particolare come quella di Nomadelfia?
«Devo ammettere che all’inizio ho pensato che la mia visione laica potesse essere condizionata dal contesto o viceversa, ma questo dubbio o timore si è dissolto velocemente, è bastato pochissimo per capirlo. E ciò è avvenuto per merito di Nomadelfia stessa, per quel che è, per quel che rappresenta, per la sua capacità di essere accogliente e inclusiva, è la sua natura. Ho percepito la loro sorpresa nel sentirsi rappresentati con occhi “diversi”. Da occhi che rivelavano anche aspetti paradossalmente per loro stessi inediti».
Come si è svolto il tuo lavoro? E in quanto tempo?
«È davvero stata una bella frequentazione di quattro anni tradotta in immagini “da dentro”. Nel “raccontare” è normale che se ne traducano punti di vista; la fotografia è interpretazione. Ma nel farlo cerco sempre di non esprimere giudizi, non desidero dare risposte. Lascio ai lettori, a coloro che guarderanno le immagini, la libertà di lasciarsi incuriosire e di farsi delle domande. La quantità e la qualità delle domande su ciò che avranno la possibilità di osservare saranno in qualche misura indice della bontà della mia operazione. In generale la mia fotografia non mira all’esaltazione della mia professionalità, ma intende porsi come tramite di conoscenza e a servizio delle realtà che scelgo di approfondire. Per me Nomadelfia è stata e continua a essere “una significativa esperienza” che ha contribuito straordinariamente al mio arricchimento interiore. È fulcro di legami forse non quotidiani, per ovvie ragioni, ma assolutamente presenti. È origine di amicizie impensabili, ma anche di tantissime domande. Domande importanti sui veri valori delle nostre vite».