A marzo 2020, quei terribili quaranta giorni di inizio pandemia Giovanni Albano li ha vissuti nell’occhio del ciclone. Medico anestesista e rianimatore, 55 anni, palermitano d’origine, vive a Segrate (Milano) con la moglie Barbara e due figli, Davide (20 anni) e Lorenzo (24). A Bergamo è primario dell’unità operativa di Anestesia e terapia intensiva dell’ospedale Humanitas Gavazzeni. I pazienti gravi, colpiti da una malattia che un anno fa era «sconosciuta, travolgente, devastante», li ha visti arrivare tutti, uno dopo l’altro, in flusso e quantità mai conosciuti in trent’anni di professione. Eppure, confida, «i momenti più difficili sono stati i pochissimi vissuti fuori dall’ospedale. Per esempio il ritorno a casa, in auto, dove nessuna compagnia era accettabile: né quella di una telefonata, di un messaggio, né della radio che andava. C’era bisogno solo di silenzio». Quello che è accaduto dentro il suo reparto, Albano lo racconta ora in un libro, I giorni più bui (Piemme).
Come ha fatto a reggere tanto dolore?
«Non lo so neppure io. Ho cercato di convincermi giorno per giorno che quel dramma nascondesse delle grandi opportunità. Questa è stata la cosa che mi ha fatto andare avanti. E anche oggi, quello che mi porto a casa è la scoperta di valori e di persone che non avevo fino a quel momento considerato. Quando sei di fronte alla paura e alla morte sei nudo. Ti guardi allo specchio e non puoi far finta di essere diverso. Sei quello che sei. Ma questo ti permette anche di misurare la tua capacità di reazione, il tuo coraggio, l’altruismo… esce tutto ciò che di solito è tenuto sotto traccia. La nostra vita di professionisti del sistema sanitario è fatta anche di conflitti, egoismi, ambizione. In quei giorni abbiamo combattuto gli uni accanto agli altri e capito il valore della collettività, della comunità. Abbiamo scoperto che il gruppo non è la somma degli individui, ma molto di più».
Com’è stato vedere la prima fase della pandemia “da dentro”, a Bergamo?
«I primi 15-20 giorni sono stati veramente tremendi. I pazienti arrivavano con un ritmo pazzesco. Come rianimatore sono uno che la morte la conosce, la guarda in faccia spesso. Però, questo rapporto tra la malattia, la morte e la rinascita (quando si guarisce) l’ho visto stravolto. Eravamo accerchiati. Non c’era più un rapporto “uno a uno”, ma una contemporaneità che metteva in ginocchio. Poi gli improvvisi peggioramenti dei pazienti... quelli che vedevano morire i propri vicini di letto... era quasi più duro questo della sofferenza fisica. Contemporaneamente abbiamo dovuto riorganizzare l’ospedale, renderlo tutto infettivologico. Ho avuto spesso l’impressione che dall’esterno non fosse possibile in alcun modo capire quello che stava succedendo. Ma questo non ha mai suscitato in me recriminazione, non ho mai colpevolizzato chi stava fuori. Anzi, ero quasi contento che la gente fosse preservata. La decisione di scrivere questo libro ora, però, nasce dal desiderio che le persone sappiano. Quello che vorrei trasmettere è che ci sono opportunità da raccogliere anche nei momenti difficili».
Lei è siciliano di origine, milanese d’adozione e lavora in ospedale a Bergamo. Cosa le ha lasciato il rapporto con questa città?
«Ho ammirato profondamente la dignità dei bergamaschi nell’affrontare questo tornado devastante che li ha travolti, la loro concretezza, la loro generosità. Nessuno si è pianto addosso, si sono dati tutti da fare».
Nel libro la sua voce si alterna a quella di Giorgio, 44 anni, che ha trascorso molto tempo fra la vita e la morte in rianimazione. Il Covid ha cambiato il rapporto fra medico e paziente?
«Il Covid ha fatto saltare tutto. È venuta meno la presenza dei familiari accanto ai malati, che è fondamentale anche per noi medici perché ci permette di non farci travolgere da un rapporto troppo intimo con il paziente. La pandemia ci ha rinchiusi, personale sanitario e malati, in un luogo a parte, a contatto con le reciproche solitudini. Ma questa condizione si è rivelata anche una grande opportunità dal punto di vista umano. La sofferenza più estrema avvicina le persone in modo incredibile, non c’è nulla da fare. Spesso sono stati i pazienti ad aiutare noi. Sono nate amicizie, come quella con Giorgio. Il nome è di fantasia, ma la persona è reale e ho voluto raccontare quei momenti anche a partire dalla sua prospettiva, quella di un letto in terapia intensiva in cui un giovane senza patologie si è trovato a lottare per la propria vita. Ricordo una sera in cui ero particolarmente stanco e sconfortato dalla rianimazione che si riempiva. In mezzo agli infermieri che correvano ho visto Giorgio nel suo letto, intubato ma vigile, in fase di miglioramento. Mi ha guardato e ha sollevato entrambi i pollici, come a dire: “Io sto bene, non preoccuparti”. Ecco, quel momento è stato decisivo per me, mi ha spronato a non arrendermi»
Lei si è ammalato di Covid-19?
«Sì, per fortuna con pochissimi sintomi».
Cosa l’ha aiutata di più?
«Innanzi tutto il rapporto fra colleghi… Abbiamo pianto tanto e ci siamo conosciuti come non era mai accaduto prima. Quando arrivavo a casa, il mio cane, un bellissimo labrador molto legato a me, mi ha tenuto tantissima compagnia. Vivo in una casa a due piani e mi sono isolato di sopra. Spesso, alla sera, non avevo voglia di parlare con nessuno. I miei figli mi supportavano con i loro messaggini, dolcissimi come i giovani sanno essere. Mi ha aiutato molto la fede. Parlavo con Dio a più riprese per farmi spiegare il senso di tutto questo. Mi ha aiutato parecchio quella sera in cui il Papa, da solo, ha sfidato la pioggia e la solitudine con la sua preghiera: è stato un momento forte che mi ha fatto capire che lui era lì, che non avrebbe sempre piovuto e non sarebbe sempre stato buio, che l’alba sarebbe tornata. Quando sei in mezzo al dramma ci vuole fede per credere fino in fondo che, prima o poi, passerà e tornerà la luce».
Come vive la sua fede?
«Ho una fede “normale”, direi. Vengo da una famiglia cattolica che mi ha sempre fatto frequentare la Chiesa, i miei figli hanno fatto i chierichetti. A causa del mio lavoro sono un praticante part-time. Ho una fede che vivo più nell’intimo che nelle manifestazioni esterne. Credo molto in un rapporto personale con Dio, fatto di un dialogo e un colloquio costante e continuo, in cui cerco delle risposte ma in cui so che devo mettere tanto del mio. Poi cerco di trasferire questo “mio” nella professione e nelle relazioni con gli altri».
Nel libro scrive che, in mezzo ai momenti difficili, abbiamo bisogno di bellezza. Perché?
«In ospedale abbiamo una ventina di gigantografie che riproducono particolari di opere d’arte, grazie a un progetto che Humanitas ha realizzato insieme all’accademia Carrara di Bergamo. È un’iniziativa di cui non smetterò di essere grato, che consola e riscalda sia i pazienti che il personale sanitario. La bellezza di cui parlo è quella di cui scrive Fëdor Dostoevskij nell’Idiota. È un’esperienza sensoriale che però coinvolge canoni etici e religiosi... è uno sguardo, una carezza che può alleviare la sofferenza. Nella mensa dell’ospedale abbiamo una gigantografia di una tela del Canaletto che mostra Venezia con una veduta dal Canal Grande. Nei momenti più duri, quando staccavo per il pranzo, guardavo questo dipinto e respiravo. Era come affacciarsi da una terrazza sulla laguna».