Auguri a tutti i padri, nella celebrazione di San Giuseppe, a tutti quelli che oggi si ritrovano chiusi a casa, a riscoprire la vicinanza e la convivenza stretta e forzata con i propri figli piccoli e grandi. Tanti di noi riscoprono l’occasione del pranzo consumato insieme, e anche di tanti singoli istanti vissuti insieme – e se con un bambino piccolo c’è l’occasione del gioco insieme, con un figlio adolescente o universitario si può riscoprire la necessità di condividere giudizi sugli eventi della storia, dalla mancanza forzata degli amici (ritrovati però sui social, per fortuna) fino alla riflessione sul valore dell’obbedienza alle regole per proteggere il bene comune, contro la travolgente voglia di libertà di tutti noi, che emerge ancora più tumultuosamente quando ci dicono “non uscire di casa”.
L’icona di San Giuseppe è quella di chi si fa padre, a tutti gli effetti, ad un bambino non suo, con un amore gratuito capace di abbracciare un’alterità infinita: Giuseppe non ripudia Maria, e quindi è anche icona di uno sposo che ama oltre ogni limite, e soprattutto sta davanti a Gesù, che non ha generato, mettendo in gioco tutto sé stesso. È lui che sulla parola dell’Angelo abbandona tutto, lavoro, amici, paese, come un nuovo Abramo, per fuggire verso la terra d’ Egitto. Non sarà stata una decisione facile, ma per proteggere il proprio figlio (quel bambino non suo!) non si poteva fare altrimenti. E non sarà stata facile nemmeno la lunga quotidianità in terra di esilio, da straniero, con un giovane moglie e un bambino piccolissimo, con una vita da reinventare. Ma la realtà era quella: da guardare in faccia e da accettare, per quanto dura fosse: per un bene superiore.
Oggi San Giuseppe, nell’emergenza Coronavirus, sarebbe chiamato allo stesso compito di protezione e di tutela del Bimbo – del Figlio, di quel figlio non suo -, ma la sua scelta sarebbe ben diversa: si chiuderebbe in casa, chiuderebbe anche la propria bottega, e così difenderebbe e proteggerebbe la nuova generazione con la reclusione in casa. Questo è il primo compito di ogni padre: e ogni padre deve saper comunicare ai propri figli il valore della vita, e il proprio amore per loro, non fuggendo verso terre lontane, ma condividendo quel #iorestoacasa sempre più indispensabile oggi.
Perché il padre, oggi come duemila anni fa, è colui che per primo deve introdurre i propri figli alla conoscenza della realtà, al riconoscimento dei limiti che la realtà impone con forza alla incomprimibile voglia di libertà e di autorealizzazione che ogni persona porta con sé. Tocca ai padri prima di tutto aiutare i nostri figli adolescenti e giovani a comprendere il valore del bene comune, e a gestire il “piccologrande” sacrificio del non poter uscire. Tanti padri (anche tante madri!) lo stanno già facendo, tanti lo devono fare con ancora più tenacia e convinzione. E soprattutto con la testimonianza, perché i nostri figli imparano con gli occhi, più che con le orecchie. Per primi, da padri, rispettiamo il vincolo del distanziamento sociale, a protezione di se stessi, dei propri figli, delle proprie famiglie, dei propri anziani, dell’intera comunità.
Riconosciamo infine oggi il dolore particolare di quei padri separati (e anche di tante madri separate) che a causa della quarantena non possono avere contatti fisici con i propri figli, perché non è davvero “opportuno” che escano di casa, per evitare così il moltiplicarsi delle occasioni di contagio: ricordiamoci che questo è un sacrificio ben più grande di quello del padre costretto in casa con moglie e figli. Ma proprio questo sacrificio testimonia il compito di protezione e cura che il padre ha: proprio l’amore per i propri figli consente di sopportare meglio il sacrificio della distanza. E questo è quello che si può continuare ad insegnare ai propri figli nelle telefonate o nei colloqui via Skype: non posso vederti di persona, ma ti sono vicino – e ti ricordo che “più ciascuno di noi rimane a casa, prima questa emergenza finirà, e prima potremo nuovamente abbracciarci”.
Da ultimo, un’annotazione personale: l’11 marzo sono diventato nonno di Agnese, figlia di mio figlio Filippo e di Serena. Agnese è nata in Olanda, e siamo stati costretti a cancellare il nostro viaggio, io e mia moglie Gabriella. Così finora abbiamo visto Agnese solo via skype – che emozione, il primo bagnetto sullo schermo del cellulare! . Un sacrificio piccolo, rispetto a quello che sta succedendo nelle nostre città (e che purtroppo sta arrivando anche in Olanda, proprio in queste ore). Ma anche così abbiamo percepito che stavamo proteggendo questa nuova vita – esattamente come ha fatto Giuseppe. Perché un nonno rimane sempre una specie di “padre speciale”. In fondo in inglese nonno non si dice “grand-father”?
*direttore Cisf (Centro Internazionale Studi Famiglia)