Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella riceve al Quirinale una delegazione dell'Ucid guidata dal presidente Riccardo Ghidella (a destra) il 25 ottobre 2018 (foto Ansa/Paolo Giandotti Ufficio Stampa Quirinale)
Non solo Ilva. In tutto il Paese, da Nord a Sud, ci sono centinaia di vertenze aziendali che riguardano decine di migliaia di lavoratori. Dalla siderurgia alla chimica, dal settore metalmeccanico a quello tessile, dall’Alitalia alla grande distribuzione. I circa 150 tavoli aperti al ministero per lo Sviluppo economico raccontano un’economia reale col fiato corto. Riccardo Ghidella, 61 anni, sposato, un figlio, manager e presidente del settore teleriscaldamento di una importante multinazionale, dal 7 giugno 2017 è presidente nazionale dell’Ucid, l’Unione cristiana imprenditori dirigenti.
L’Italia pare non riuscire più a elaborare una politica industriale degna di questo nome. Perché?
«Dalle ricerche del Sole24ore emerge che il 38% delle oltre 150 vertenze aziendali trattate dal 2016 a oggi si è chiuso in modo positivo. Esito negativo per il 34% dei casi, mentre quasi il 27% delle crisi aperte a partire dal 2016 risulta ancora in corso. Da una ricerca di Unioncamere, poi, risulta che, nel 2019, ogni giorno l’Italia abbia perso in media 240 aziende: ogni 24 ore 1.511 imprese si cancellavano dal registro, contro le 1.271 che si iscrivevano».
Una Caporetto o quasi...
«Si gestisce l’emergenza, ma manca una pianificazione efficace. Il Paese è privo di un vero piano industriale. Redigerlo significherebbe identificare, rispetto al mercato globale con cui competiamo, sia le filiere d’eccellenza che i gap del nostro sistema produttivo e dei servizi, soprattutto delle Pmi (Piccole e medie imprese, ndr) e dell’artigianato. Questo porterebbe ad agire chirurgicamente nei singoli territori. In altre parole a fare delle scelte. Non accade da tempo perché la diffusa governance movimentista cambia spesso opinione e teme di esporsi per paura di contraccolpi elettorali. Dal canto suo, un’Europa finanziaria e non politica è priva di visioni d’insieme bilanciate. In questo scenario noi imprenditori dobbiamo selezionare una nuova classe dirigente responsabile che creda nella centralità della persona e nel bene comune, che gestisca l’impresa anche come anello di sussidiarietà e che generi un nuovo patto sociale».
Quale settore consente di coltivare un minimo di speranza?
«L’Italia non vanta soltanto uno tra i più importanti tesori culturali, artistici e naturali del pianeta, che alimenta un settore turistico da valorizzare, ma è anche un incredibile scrigno di eccellenze creative, tecnologiche e industriali. Hi-tech, mobilità, aerospaziale, efficienza energetica, sostenibilità ambientale, agroalimentare sono settori di punta. I nostri politecnici e le nostre start-up sono tesori da sviluppare. Ma ogni territorio italiano custodisce Pmi leader in Europa. Ma è una realtà polverizzata da razionalizzare, aiutare e incentivare, in primis attraverso le politiche del lavoro e dell’accesso al credito, veri nodi per lo sviluppo».
Fca, dopo l’annunciato accordo il silenzio. Teme che si rischi il progressivo addio dell’auto?
«Un Paese stabile e un Governo internazionalmente forte avrebbero a suo tempo consentito scelte diverse e una Fiat più italiana e torinese. Ma oggi questa è la realtà. Lasciamo quindi lavorare il vertice Fca e piuttosto supportiamolo affinché si creino i presupposti europei e internazionali per difendere l’occupazione e la nostra filiera produttiva dell’automotive. Ci sono regioni italiane dove questo particolare segmento del settore metalmeccanico supera il 30%, quindi ogni decisione sull’auto ha già oggi un impatto importante che va gestito».
Lo Stato: troppo o troppo poco?
«L’impresa responsabile deve generare reddito e sviluppo sociale. Il punto è che il sistema deve favorire questa nobile vocazione, come la definisce papa Francesco, perché essa attiva investimenti, occupazione, formazione e gettito fiscale. Noi chiediamo un sistema premiale per l’impresa che metta al centro il lavoro, la formazione e il territorio e che renda patrimonio quel bene intangibile che è la persona. Le priorità per il nostro Paese oggi sono molto precise: favorire un’Europa politica forte e solidale, un piano industriale che scelga le priorità per garantire competitività e colmare i gap concorrenziali, un vero cuneo fiscale che privilegi i più giovani e chi ha perso il lavoro, un sistema premiale per chi digitalizzandosi contribuisce alla sostenibilità, forma le proprie risorse e crea nuovi posti di lavoro, un sistema pensionistico più giusto che generi un ricambio superando la Fornero e consenta a Quota 100 di dare frutti veri, un collegamento più strutturato fra scuole professionali e mondo del lavoro. Ma su tutto stabilità politica e finanziaria. Oggi per gli investitori esteri e il sistema bancario internazionale il rischio-Italia è infatti l’assoluta imprevedibilità dei nostri incentivi, dei tempi giudiziari, del sistema di welfare, della burocrazia e l’esponenziale decadenza delle nostre infrastrutture di trasporto. Dar speranza oggi è fare scelte».