Non ha suscitato l'attenzione che avrebbe meritato l'articolo 14 del cosiddetto Disegno di legge (Ddl) sulle semplificazioni approvato dal Consiglio dei ministri la settimana scorsa. Fra i tanti provvedimenti programmati, uno riguarda in modo diretto il nostro patrimonio culturale e prevede la possibilità, per i musei italiani, di dare in affitto le opere d'arte che giacciono nei magazzini. Non si confonda l'affitto con il prestito, pratica già ampiamente diffusa in tutto il mondo, per la quale lo Stato concede un permesso di circolazione a un bene della durata di 18 mesi. Qui si parla di affitto, precisamente di dieci anni e rinnovabile una sola volta fino a una durata massima, dunque, di 20 anni.
Nelle intenzioni del legislatore, il provvedimento dovrebbe servire a valorizzare e dare visibilità a quella parte del nostro patrimonio che resta nascosta nella cantine - non si applica alle opere già esposte nelle collezioni dei musei - realizzando anche un guadagno: l'ente che prende in affitto l'opera, si fa carico della sua manutenzione e sicurezza, pagando poi una cifra per l'affitto. Viene posta anche la condizione che tali beni vengano esposti in sezioni appositamente dedicate alla cultura italiana.
I vantaggi sono quindi evidenti: anziché lasciare che un quadro o una scultura vengano coperti dalla polvere - in attesa che qualcuno trovi il tempo e le risorse per recuperarli, catalogarli, restaurarli e infine esporli, un'attesa che a volte può avvicinarsi all'infinito - si preferisce affidarli all'estero, con la garanzia che abbiano tutte le cure di cui hanno bisogno, che vengano mostrati al pubblico e che procurino un guadagno.
In cambio, si paga un prezzo: quel bene viene di fatto alienato al suo legittimo proprietario, l'Italia e gli italiani. Che così confessano di non essere in grado di prendersene cura. È un po' come affidare temporanemante un figlio a dei parenti o a una famiglia selezionata dai servizi sociali, a causa dell'impossibilità di seguirlo e farlo crescere come dovrebbe. Si legge, in questo provvedimento, un'ammisione di colpa, ma nel contempo emerge la mancanza di volontà di fare della cultura un asset strategico della nostra politica. Dare in affitto, da questo punto di vista, è niente di più che un ripiego, un male minore.
È vero che l'affitto non cancella la proprietà, ma la durata - 10 o 20 anni - è cospicua.
Qualcuno ha avanzato un'obiezione ancora più radicale, concentrata in un'espressione che compare nel testo del Ddl: «sfruttamento economico». In questo modo non si riduce a merce un bene che dovrebbe avere una natura, uno status diverso? Meglio allora mantenerne la purezza, anche se impolverata e invisibile?
Il dibattito è aperto.