Wajib comincia con un notiziario trasmesso dall’autoradio. Si annunciano i funerali della giornata a Nazaret. Uno si svolge alla moschea, uno nella chiesa cattolica, un altro nella chiesa degli ortodossi.
Nei giorni che precedono le feste di Natale, Abu Shadi, 65 anni, palestinese, insegnante, lasciato dalla moglie, si fa accompagnare dal figlio Shadi nei preparativi del matrimonio della figlia Amal. Bisogna consegnare l’invito per le nozze a conoscenti e parenti e i due uomini attraversano in auto la città. Visitano case di musulmani, atei e cristiani, fra presepi, alberi di Natale, offerte di tè, caffè e dolcetti della prelibata tradizione pasticcera di Nazaret.
I dialoghi sono cordiali, affettuosi, ma quando padre e figlio tornano in auto e restano imbottigliati nel traffico emerge la loro diversa visione della vita, dei valori e del contesto in cui vivono. Il contrasto nasce non solo per motivi generazionali. Shadi infatti vive in Italia, dove lavora come architetto, e fatica a riconoscersi nelle tradizioni che stanno a cuore a suo padre. Per esempio, non apprezza per niente il cantante e le musiche scelte per il matrimonio della sorella. Ma il contrasto diventa più duro quando Abu Shadi vuole consegnare l’invito per le nozze della figlia anche a un suo conoscente ebreo, che il figlio ritiene una spia. Il padre difende le sue ragioni, il figlio lo contesta. «Io vivo qui», si difende il padre. «E questo lo chiami vivere?», incalza il figlio.
Secondo Annemarie Jacir, la regista palestinese di Wajib, il film «è la storia di due uomini distrutti che provano entrambi dolore e rabbia. Due uomini che hanno preso decisioni contrastanti e si chiedono reciprocamente un po’ di rispetto. Alla fine del film non mi interessa sapere chi ha ragione e chi ha torto: cerco solo di essere onesta rispetto al loro dolore e alla loro vita quotidiana».
I due bravissimi attori protagonisti, Mohammad Bakri e Saleh Bakri, sono padre e figlio anche nella vita reale, così come i loro doppiatori italiani, Marco e Andrea Mete.