C’è una scena che, più delle altre, dice che Un posto sicuro (nelle sale dal 3 dicembre) è un film che ha vinto la sua scommessa. È quella in cui l’attore Giorgio Colangeli - (nel film padre del protagonista Luca interpretato da Marco D’Amore) - si mescola con le persone vere, che hanno vissuto sulla pelle e nelle famiglie il dramma delle conseguenze inquinanti dell’amianto a Casale Monferrato, riuscendo a essere credibile, a non sembrare più realista del re ma neanche meno reale del vero.
Non era facile per il film girato, prima che in una città, dentro la sofferenza di tante persone. Ci hanno scommesso Francesco Ghiaccio, regista, e Marco D’Amore con Colangeli protagonista, ed entrambi coproduttori e sceneggiatori. Hanno fatto tutte le parti in commedia Ghiaccio e D’Amore, ideando, scrivendo, girando, recitando, mettendoci dentro molto di sé stessi - i due sono amici da tempo, Ghiaccio è nato e cresciuto vicino a Casale - il rischio era grondare retorica, non trovare il giusto distacco e invece no: Un posto sicuro è certo un film carico di dolore, e non avrebbe potuto essere altrimenti, è un film che non può avere un lieto fine in senso proprio, ma è tutt'altro che un film senza speranza.
E' così a partire dal suo titolo emblematico, ambivalente come un ossimoro, che allude da un lato alla fabbrica Eternit vissuta all’inizio da tutti ignari come l’approdo all’agognato lavoro sicuro, dall’altro all'insicurezza che, dopo, ha seminato tra le persone che hanno lavorato e vissuto lì attorno respirando polveri cancerogene che hanno devastato migliaia di vite. Ma allude anche al fatto, ed è la terza possibile lettura di questo titolo, che a seguito dell’impegno delle persone che, nonostante la sofferenza (e le delusioni per l’epilogo giudiziario che ha dichiarato prescritto il reato di disastro ambientale), hanno tenuto acceso il riflettore su questa dolorosissima vicenda e che hanno fatto sì che Casale sia oggi la città più bonificata d’Europa e che l’amianto sia fuorilegge in molti Paesi.
Sono stati bravi Ghiaccio e D’Amore, per il tema, per la sfida, ma anche per essere usciti, senza tradirsi e senza tradire, dalla dimensione del documentario, per costruire un vero film, cioè una storia, la piccola storia umana di un padre di un figlio, di una ragazza (Matilde Gioli) – non veri ma verosimili -, che non è la Storia, ma che ci sta credibilmente incastonata dentro, con buone prove d’attori e con il coraggio di un tema forte nella stagione dei cinepanettoni.